mercoledì

SANGUE E ORRORE IN PALESTINA - PARTE PRIMA - Colonizzare la Palestina

Di Antonella Randazzo



Che si creda o no all'esistenza di Gesù Cristo o alle tribù d'Israele, la Palestina rappresenta una terra importante nella Storia degli esseri umani. Eppure è un luogo in cui la popolazione ha subito le più crudeli persecuzioni, costretta ad oggi a vivere in guerra, controllata a vista dall'esercito.
In molti territori dell'attuale Stato di Israele, 2700 anni fa la situazione era più o meno la stessa, l'impero Assiro perseguitava gli abitanti, distruggendo e deportando.
La località di Megiddo, o Tell al-Mutesellim (in arabo), appariva nel Nuovo Testamento (nell'Apocalisse di Giovanni) col nome di Armageddon, in ebraico "monte di Megiddo", ossia il luogo in cui, secondo la mistica cristiana, dovrebbe avvenire una sorta di battaglia finale fra le forze del bene e quelle del male.
Megiddo è una collina che comprende un sito archeologico che nell'8° secolo a. C. fu un campo di battaglia. Gli Assiri uccisero buona parte della popolazione e deportarono parecchie persone in Mesopotamia. L'impero Assiro dominò per molto tempo, dividendo gruppi etnici e culture.
Paradossalmente, sembra che l'antico progetto di distruzione del popolo palestinese non sia mai sparito.
Nell'età contemporanea tutto iniziò con la fine della Prima guerra mondiale, quando gli inglesi avrebbero dovuto mantenere l'impegno preso di rendere la zona indipendente.
Durante la Prima guerra mondiale, le potenze occidentali sostennero con convinzione il principio di autodeterminazione dei popoli, e fornirono alle popolazioni arabe più che una speranza di poter costruire un assetto politico-economico liberamente scelto sulla base della loro cultura. Il presidente americano Thomas Woodrow Wilson, nei suoi 14 Punti, sosteneva: "Una sicura sovranità sarà garantita alle parti turche dell'Impero ottomano attuale (compresa la Palestina); ma le altre nazionalità che si trovano in questo momento sotto la dominazione turca dovranno avere garantita un'indubbia sicurezza di esistenza ed il modo di svilupparsi senza ostacoli, autonomamente".(1)
Dopo la Prima guerra mondiale, il problema del potere sui territori ex ottomani assunse caratteristiche diverse rispetto alle aspettative arabe. Per i paesi vincitori, la Gran Bretagna, la Francia e gli Usa, il problema principale era diventato quello di spartirsi la “torta”, senza alcuna considerazione per la cultura araba e per le promesse fatte agli arabi.

La Gran Bretagna avrebbe dovuto rispettare la dichiarazione di Balfour, e permettere agli ebrei di ottenere parte della Palestina, ma dovette esitare per evitare le proteste dei popoli arabi. Le autorità inglesi, anche se non avevano alcuna intenzione di rispettare i patti conclusi con gli arabi, volevano evitare di provocarli a tal punto da creare gravi disordini.
Le popolazioni arabe si accorsero ben presto che il discorso sull’autodeterminazione era caduto nel dimenticatoio, e a partire dal 1920 si ebbero numerose rivolte e sollevazioni contro il potere britannico.
Gli arabi della Palestina furono ingannati spudoratamente dagli inglesi e dagli americani. Essi avevano combattuto contro i turchi, con la convinzione che dopo la guerra avrebbero avuto una piena sovranità su tutte le loro terre. Thomas Edward Lawrence (Lawrence d'Arabia), che si era prestato a capeggiare la rivolta degli arabi, sospettando che le autorità inglesi non avrebbero mantenuto la promessa, confessò a Winston Churchill:

"Azzardai la frode poiché ero convinto che l'aiuto degli arabi fosse necessario per una nostra vittoria, veloce e a buon mercato, in Oriente, e che fosse meglio vincere e non mantenere la parola data, piuttosto che perdere... L'ispirazione araba fu il nostro strumento principale per vincere la guerra d'Oriente. Così assicurai loro che l'Inghilterra avrebbe mantenuto la promessa nelle parole e nei fatti. Sorretti da ciò, essi compirono le loro belle imprese; ma, ovviamente, invece di essere orgoglioso di ciò che facevamo insieme, provavo continua amarezza e vergogna."(2)

Quando gli arabi si accorsero che gli inglesi avevano fatto il doppio gioco, organizzarono il congresso generale dei nazionalisti arabi, che si riunì a Damasco nel luglio del 1919. I progetti sionisti e la spartizione delle regioni islamiche, progettata dai paesi occidentali, vennero decisamente rifiutati.
L’allora segretario di Stato alle colonie Winston Churchill, per tranquillizzare i palestinesi, scrisse un memorandum (Memorandum Churchill), in cui sosteneva che sarebbe stata limitata la possibilità di creare uno Stato ebraico in Palestina, anche se gli ebrei continuavano a giungere sul territorio palestinese. Da 83.790 (nel 1922) divennero, nel 1929, 156.481. Nel 1929, fu creata un’Agenzia ebraica per la Palestina, che si occupò anche di costruire ospedali, scuole e l'Università di Gerusalemme. Mentre gli arabi venivano indeboliti anche da divisioni interne (fra sostenitori degli Husseini e degli Nashashibi), gli ebrei della Palestina si organizzavano e diventavano sempre più numerosi, grazie ai notevoli finanziamenti di Rothschild e all’appoggio politico degli Usa.
La formazione dello Stato d'Israele è stata fatta contro gli interessi degli stessi ebrei, e fomentando l'antisemitismo.
Nel 1881 la Palestina era un'area tranquilla, popolata da mezzo milione di abitanti, di cui 20.000 ebrei. C'era una notevole tolleranza religiosa, e le caratteristiche culturali arabe si manifestavano anche attraverso il calore e l'ospitalità del popolo palestinese. Con la nascita del sionismo le cose sarebbero drammaticamente cambiate.
Il sionismo nasce ufficialmente nell’agosto del 1897, anno in cui si svolge il Primo Congresso Sionista Internazionale. Il promotore è Theodore Herzl, un giornalista austriaco ebreo non praticante, che l’anno precedente aveva scritto il libro "Der Judenstaat" (Lo Stato Ebraico), in cui promuoveva l’idea di creare uno Stato Ebraico. All’epoca il suo progetto risultava sconcertante, perché equivaleva a privare migliaia di palestinesi della loro terra. Le idee sioniste facevano parte di un ampio progetto politico per colonizzare la Palestina, finanziato dal Barone Edmond de Rothschild che, dagli anni Ottanta del XIX secolo, aveva organizzato diversi insediamenti di ebrei russi e polacchi in Palestina.
Il progetto di Herzl, sostenuto dagli Usa, procederà con cautela, e inizialmente non menzionerà nemmeno la parola “Stato”, ma l’eufemismo “focolare”. Tuttavia, dopo la dichiarazione di Balfour, il progetto avanzava, e con l'insediamento degli ebrei iniziò un percorso caotico di separazioni, razzismo e prevaricazione a danno dei palestinesi.
Negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, nacquero movimenti armati sionisti per il controllo del territorio, come Lehi (chiamato anche Stern dal nome del suo fondatore Avraham Stern), l’Haganà, e l’Etzel. Queste formazioni organizzeranno molti attentati terroristici, per uccidere i palestinesi o costringerli a fuggire dalle loro terre.
Negli anni Trenta del secolo scorso, i sionisti si appoggiarono ai nazisti per riuscire a far arrivare in Palestina molte famiglie tedesche di ceto medio-alto. Racconta l'ex capo della Federazione Sionista tedesca, Hans Friedenthal: "La Gestapo fece di tutto in quei giorni per dare impulso all'emigrazione, in particolare verso la Palestina. Ricevemmo spesso il loro aiuto qualsiasi cosa ci fosse richiesta da altri enti a proposito dei preparativi per l'emigrazione".(3)
Nello stesso anno in cui Hitler salì al potere, fu siglato l'Accordo di Trasferimento, che permise a decine di migliaia di ebrei tedeschi di emigrare in Palestina. L'Accordo, detto anche Haavara, venne firmato nell'agosto del 1933, da funzionari tedeschi e da Chaim Arlosoroff, segretario politico dell'Agenzia ebraica, centro palestinese dell'Organizzazione Mondiale Sionista.
Ogni ebreo, che decideva di emigrare in Palestina, doveva depositare il proprio denaro in un conto speciale. Il denaro sarebbe stato utilizzato per comprare in Germania materiali da costruzione o prodotti agricoli, che poi sarebbero stati venduti alla compagnia ebraica Haavara, e il ricavato sarebbe stato restituito ai coloni. Tutto questo aveva lo scopo di portare in Palestina coloni e capitale, per sviluppare rapidamente l'economia del futuro Stato.
Gli inglesi pretendevano il pagamento di 1000 sterline per ogni immigrato giunto ad Haifa o in altri porti, e per provvedere a questi pagamenti venne creata la Banca Anglo-Palestinese, che aveva sede a Londra. I sionisti puntavano a portare in Palestina le famiglie ebree benestanti, per incrementare i capitali del futuro Stato d'Israele. Osserva lo storico Edwin Black:

"Farla finita con l’embargo antitedesco era uno dei traguardi dei sionisti. Il Sionismo doveva far uscire il capitale degli Ebrei tedeschi e i beni commerciali erano l’unico mezzo a disposizione per ottenere questo scopo. Ma ben presto i leaders sionisti capirono che le possibilità di successo per l’economia del futuro Stato ebreo di Palestina erano indissolubilmente connesse con la sopravvivenza dell’economia tedesca. Per questo la dirigenza sionista ebbe motivo di andare ancora oltre: l’economia tedesca andava difesa, stabilizzata e se necessario rafforzata. Quindi il partito nazionalsocialista e l’organizzazione sionista avevano un comune interesse al risanamento della Germania".(4)

I sionisti, dunque, sostenevano l'economia tedesca per pagare l'emigrazione ebraica, ma avevano anche bisogno di propagandare il regime nazista come crudele e sanguinario, per spaventare gli ebrei e convincerli ad emigrare. Fra il 1933 e il 1941, emigrarono in Palestina circa 60.000 ebrei tedeschi, attraverso l'Haavara e altri accordi con i nazisti; si trattava di circa il 10% della popolazione ebraica della Germania. Fu trasferito dalla Germania alla Palestina un capitale di 139 milioni e 57.000 marchi tedeschi (oltre 40 milioni di dollari).(5) Accordi commerciali con la Germania nazista portarono in Palestina altri 70 milioni di dollari. Grazie all'Haavara furono costruite industrie, aziende e imprese commerciali, che svilupparono l'economia del futuro Stato israeliano.
I sionisti erano d'accordo nel discriminare gli ebrei, e utilizzarono l'antisemitismo per convincere che fosse necessario far nascere uno Stato ebraico. Stephen S. Wise, presidente dell'American Jewish Congress e del World Jewish Congress, ad un raduno, nel giugno del 1938, disse: "Io non sono un cittadino americano di religione ebraica, io sono un ebreo. Hitler ha ragione su un punto. Egli definisce il popolo ebraico una razza e noi siamo una razza".(6)
Le idee e i progetti dei sionisti furono condivisi e appoggiati dal governo nazista, che li aiutò ad organizzare in Germania quaranta campi e centri agricoli, dove trovarono rifugio temporaneo i futuri coloni. Nei campi sventolava la bandiera ebraica, in violazione alle Leggi di Norimberga.
Alla fine degli anni Trenta, il governo britannico cercò di limitare l'immigrazione ebraica in Palestina, ma Hitler aveva stipulato un accordo segreto con i sionisti capeggiati da Mossad le-Aliya Bet, per portare gli ebrei in Palestina in modo clandestino.
Sia il nazismo che il sionismo partivano dal presupposto che gli ebrei non dovessero integrarsi nella società tedesca. Scriveva il "Jüdische Rundschau", giornale della federazione sionista:

"Il Sionismo riconosce l'esistenza di un problema ebraico e desidera una soluzione costruttiva e di vasta portata. A tal fine il Sionismo desidera ottenere l'assistenza di tutti i popoli, sia favorevoli che contrari agli ebrei, perché, dal suo punto di vista, noi qui siamo affrontando un problema concreto e non di sentimenti, alla soluzione del quale tutti i popoli sono interessati".(7)

Il governo di Hitler sostenne il sionismo e l’emigrazione degli ebrei tedeschi in Palestina dal 1933 fino al 1940. Grazie all’aiuto da parte del governo nazista, la federazione sionista guadagnò molte adesioni, e attraverso numerose pubblicazioni fece ampia propaganda per convincere i tedeschi ad emigrare in Palestina.
All’inizio degli anni Trenta erano molto pochi gli ebrei tedeschi che volevano andare in Palestina, ma dopo l’ondata di propaganda antisemita da parte del governo, molti iniziarono a convincersi, soprattutto perché impauriti dalle conseguenze che l’antisemitismo diffuso dal nazismo avrebbe potuto avere. Secondo alcuni storici, come Walter Laqueur, gli ebrei tedeschi, prima che Hitler salisse al potere, non erano inclini a considerare i sionisti come i loro leader politici e non avevano nemmeno lontanamente l'idea di dover emigrare in Palestina per risolvere i problemi ebraici.
Il giornalista Klaus Polkehn ritiene che le autorità sioniste desiderarono che il nazismo andasse al potere per essere aiutati a portare ebrei in Palestina.(8) Di fatto, Hitler collaborò attivamente e fu grazie al suo aiuto che i sionisti riuscirono a far trasferire il 10% degli ebrei tedeschi in Palestina. Secondo Black, il sionismo puntava a far emigrare soprattutto le famiglie ebree di classe medio-alta, per costruire l’economia capitalistica in un’area non sviluppata:

"Il Sionismo doveva far uscire il capitale degli Ebrei tedeschi e i beni commerciali erano l’unico mezzo a disposizione per ottenere questo scopo. Ma ben presto i leaders sionisti capirono che le possibilità di successo per l’economia del futuro Stato ebreo di Palestina erano indissolubilmente connesse con la sopravvivenza dell’economia tedesca. Per questo la dirigenza sionista ebbe motivo di andare ancora oltre: l’economia tedesca andava difesa, stabilizzata e se necessario rafforzata. Quindi il partito nazionalsocialista e l’organizzazione sionista avevano un comune interesse al risanamento della Germania."(9)

Al contrario delle autorità sioniste, molti ebrei si opposero al nazismo, e in tutto il mondo protestarono quando, nel 1933, Hitler salì al potere. Il 27 marzo del 1933, i capi della Comunità Ebraica internazionale organizzarono manifestazioni di protesta a Londra, Chicago, Philadelphia, Boston, Baltimore, Cleveland e in altre 70 località.(10) Gli ebrei capivano che il nazismo non sarebbe stato loro favorevole, e cercarono in tutti i modi di far capire al mondo intero la pericolosità della Germania di Hitler, auspicando sanzioni contro il regime, ma né le autorità inglesi né quelle americane vollero adottare misure economiche penalizzanti. Al contrario, le banche e le società anglo-americane fecero grossi affari con Hitler, anche durante la guerra.
Il governo di Hitler fece una forte pressione affinché gli ebrei tedeschi non si sentissero accettati, e riscoprissero la loro identità ebraica. Le Leggi di Norimberga, approvate nel 1935, proibivano le relazioni fra ebrei e non ebrei, e consideravano la minoranza ebraica come straniera. Ciò incoraggiava gli ebrei ad avvicinarsi alle teorie sioniste, che sostenevano l’importanza di emigrare nella terra di “Sion”.
Già negli anni Venti dello scorso secolo, il sionista Jacob Klatzkin aveva cercato di convincere gli ebrei tedeschi ad emigrare in Palestina, appoggiando l'idea che essi fossero stranieri: "Noi ebrei siamo stranieri, un popolo straniero in mezzo a voi e desideriamo continuare ad esserlo. Un ebreo non sarà mai un leale tedesco; chiunque chiama questa terra straniera la propria patria è un traditore del popolo ebraico".(11)
L’antisemitismo era funzionale ai progetti sionisti, come fece notare Ben Gurion: "Non sempre e in ogni luogo io mi opporrò all'antisemitismo. I sionisti giocheranno regolarmente la loro utile carta razziale antisemita". Lo stesso Theodor Herzl aveva istigato l'odio verso gli ebrei per indurli ad emigrare: "E' fondamentale che le sofferenze degli ebrei diventino peggiori perché questo favorirà la realizzazione dei nostri piani. Io ho un'idea eccellente e indurrò gli antisemiti a liquidare le ricchezze degli ebrei, gli antisemiti inoltre ci assisteranno quando rafforzeranno la persecuzione e l'oppressione degli ebrei. Gli antisemiti saranno i nostri migliori amici".(12) Il rabbino sionista Yosef Klausner, alla Conferenza Ebraica Americana del 2 maggio 1948, sostenne:

"Sono convinto che il popolo deve essere forzato ad andare in Palestina. Per loro, un dollaro americano appare come il più alto degli obiettivi. Con la parola "forzare", io voglio suggerire un programma. Esso è servito per l'evacuazione degli Ebrei in Polonia, e nella storia dell'Exodus. Nell'applicare questo programma noi dobbiamo, invece di dare conforto ai profughi, fornire loro il più grande disagio. Nella fase successiva dobbiamo chiedere aiuto all'Haganah per tormentare gli ebrei".(13)

I sionisti cercarono ovunque di spingere gli ebrei ad emigrare, utilizzando l’antisemitismo e il terrorismo. Ad esempio, nel periodo 1949-1950, il sionista Mordechai ben Porat, attuò un piano per convincere funzionari iracheni ad approvare leggi che inducessero gli ebrei a lasciare l'Iraq. Facevano parte del piano anche diversi attentati terroristici contro le sinagoghe di Baghdad, attuati nel marzo del 1950.(14)
Finché la Gran Bretagna ebbe il protettorato in Palestina, non tutti gli emigranti ebrei furono accolti in Palestina. Nel luglio del 1947, fu rimandata indietro la nave Exodus, che dall’Europa portava in Israele 4500 ebrei sopravvissuti all’Olocausto.
Nel novembre del 1947, l’Assemblea Generale dell’Onu decise la spartizione della Palestina in uno Stato ebraico e uno Stato palestinese.
Quell'anno gli ebrei in Palestina erano 600.000, e possedevano circa il 6% della terra palestinese coltivabile, mentre i palestinesi erano 1.250.000. La risoluzione dell'Onu, votata il 29 novembre 1947, dava agli israeliani il 55% delle terre palestinesi, nonostante la popolazione israeliana costituisse soltanto un terzo degli abitanti della Palestina.
Nel 1948 venne proclamato lo Stato d’Israele, riconosciuto immediatamente dal presidente americano Harry Truman, e poco tempo dopo anche dall'Urss.
Il 14 maggio del 1948, la Lega Araba dichiarò guerra al nuovo Stato, ma fu sconfitta, e l'anno successivo Israele firmò l'armistizio con l'Egitto, il Libano, la Giordania e la Siria.
Nonostante le autorità israeliane avessero ottenuto molto di più di ciò che avrebbero dovuto, iniziarono una vera e propria guerra per occupare altri territori e per impedire il costituirsi di uno Stato palestinese. Con la violenza, riuscirono ad occupare l'81% dell'area totale della Palestina, costringendo alla fuga un milione di arabi. Occuparono 524 città e villaggi arabi, distruggendone 385. Sulle rovine dei villaggi, costruirono nuovi edifici e insediamenti. Lo storico Benny Morris racconta il massacro del popolo palestinese:

"I massacri compiuti dagli israeliani furono molto più numerosi di quanto pensassi in precedenza. Con mia sorpresa, ci furono anche molti casi di stupro. Nell’aprile e maggio del 1948 unità della Haganah (la forza di difesa che esisteva prima della fondazione dello stato di Israele) ricevettero ordini operativi in cui si affermava esplicitamente che dovevano cacciare gli abitanti dalle loro case e distruggere i villaggi. Al tempo stesso è emerso che l’Alto comitato arabo e i leader palestinesi diedero ordine di allontanare da alcuni villaggi bambini, donne e anziani… il 31 ottobre 1948, il comandante del fronte settentrionale, Moshe Carmel, emanò un ordine scritto in cui comandava alle sue unità di accelerare l’allontanamento della popolazione araba. Carmel intraprese quell’azione immediatamente dopo la visita di Ben-Gurion al comando settentrionale, di stanza a Nazareth. Per me non c’è alcun dubbio che quell’ordine provenisse proprio da Ben-Gurion… A partire dall’aprile del 1948 Ben-Gurion si orientò verso i trasferimenti forzati di popolazione… Lo stato ebraico non sarebbe nato senza la cacciata di 700mila palestinesi dalle terre che abitavano".(15)

Nell’aprile e nel maggio del 1948, l'Haganah ricevette ordini dal governo di Ben-Gurion di cacciare i palestinesi dalle loro case e di distruggere i villaggi. Almeno 800.000 palestinesi furono cacciati dalle loro terre. Durante i trasferimenti forzati si ebbero massacri, violenze e stupri contro la popolazione palestinese. Molti villaggi furono dati alle fiamme, e oltre 800 persone persero la vita. Gli arabi definirono tutto questo Nakba (catastrofe).
Nel dicembre del 1948, in seguito alla visita di Menachem Begin negli Usa, Albert Einstein e altri scienziati ebrei fecero pubblicare una lettera sul "New York Times", che diceva:

"Fra i fenomeni più preoccupanti dei nostri tempi emerge quello relativo alla fondazione, nel nuovo stato di Israele, del Partito della Libertà (Tnuat Haherut), un partito politico che nella organizzazione, nei metodi, nella filosofia politica e nell’azione sociale appare strettamente affine ai partiti Nazista e Fascista. E’ stato fondato fuori dall’assemblea e come evoluzione del precedente Irgun Zvai Leumi, una organizzazione terroristica, sciovinista, di destra della Palestina. L’odierna visita di Menachem Begin, capo del partito, negli USA è stata fatta con il calcolo di dare l’impressione che l’America sostenga il partito nelle prossime elezioni israeliane, e per cementare i legami politici con elementi sionisti conservativi americani. Parecchi americani con una reputazione nazionale hanno inviato il loro saluto. E’ inconcepibile che coloro che si oppongono al fascismo nel mondo, a meno che non sia stati opportunamente informati sulle azioni effettuate e sui progetti del Sig. Begin, possano aver aggiunto il proprio nome per sostenere il movimento da lui rappresentato.
Prima che si arrechi un danno irreparabile attraverso contributi finanziari, manifestazioni pubbliche a favore di Begin, e alla creazione di una immagine di sostegno americano ad elementi fascisti in Israele, il pubblico americano deve essere informato delle azioni e degli obiettivi del Sig. Begin e del suo movimento.
Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato Fascista. E’ nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro.
Un esempio scioccante è stato il loro comportamento nel villaggio Arabo di Deir Yassin. Questo villaggio, fuori dalle strade di comunicazione e circondato da terre appartenenti agli Ebrei, non aveva preso parte alla guerra, anzi aveva allontanato bande di arabi che lo volevano utilizzare come una loro base. Il 9 Aprile, bande di terroristi attaccarono questo pacifico villaggio, che non era un obiettivo militare, uccidendo la maggior parte dei suoi abitanti (240 tra uomini, donne e bambini) e trasportando alcuni di loro come trofei vivi in una parata per le strade di Gerusalemme.
La maggior parte della comunità ebraica rimase terrificata dal gesto e l’Agenzia Ebraica mandò le proprie scuse al Re Abdullah della Trans-Giordania.
Ma i terroristi, invece di vergognarsi del loro atto, si vantarono del massacro, lo pubblicizzarono e invitarono tutti i corrispondenti stranieri presenti nel paese a vedere i mucchi di cadaveri e la totale devastazione a Deir Yassin. L’accaduto di Deir Yassin esemplifica il carattere e le azioni del Partito della Libertà.
All’interno della comunità ebraica hanno predicato un misto di ultranazionalismo, misticismo religioso e superiorità razziale. Come altri partiti fascisti sono stati impiegati per interrompere gli scioperi e per la distruzione delle unioni sindacali libere. Al loro posto hanno proposto unioni corporative sul modello fascista italiano. Durante gli ultimi anni di sporadica violenza anti-britannica, i gruppi IZL e Stern inaugurarono un regno di terrore sulla Comunità Ebraica della Palestina. Gli insegnanti che parlavano male di loro venivano aggrediti, gli adulti che non permettevano ai figli di incontrarsi con loro venivano colpiti in vario modo. Con metodi da gangster, pestaggi, distruzione di vetrine, furti su larga scala, i terroristi hanno intimorito la popolazione e riscosso un pesante tributo. La gente del Partito della libertà non ha avuto nessun ruolo nelle conquiste costruttive ottenute in Palestina. Non hanno reclamato la terra, non hanno costruito insediamenti ma solo diminuito la attività di difesa degli Ebrei.
I loro sforzi verso l’immigrazione erano tanto pubblicizzati quanto di poco peso e impegnati principalmente nel trasporto dei loro compatrioti fascisti.
La discrepanza tra le sfacciate affermazioni fatte ora da Begin e il suo partito, e il loro curriculum di azioni svolte nel passato in Palestina non portano il segno di alcun partito politico ordinario. Ciò è, senza ombra di errore, il marchio di un partito Fascista per il quale il terrorismo (contro gli Ebrei, gli Arabi e gli Inglesi) e le false dichiarazioni sono i mezzi e uno stato leader l’obbiettivo.
Alla luce delle soprascritte considerazioni, è imperativo che la verità su Begin e il suo movimento sia resa nota a questo paese. E’ maggiormente tragico che i più alti comandi del Sionismo Americano si siano rifiutati di condurre una campagna contro le attività di Begin, o addirittura di svelare ai suoi membri i pericoli che deriveranno a Israele sostenendo Begin. I sottoscritti infine usano questi mezzi per presentare pubblicamente alcuni fatti salienti che riguardano Begin e il suo partito, e per sollecitare tutti gli sforzi possibili per non sostenere quest’ultima manifestazione di fascismo".

Le autorità israeliane, che erano le stesse che capeggiavano o avevano capeggiato i gruppi terroristici, perseguitarono la stessa cultura araba, cercando di cancellarla uccidendo e distruggendo luoghi, moschee e persino alberi d'ulivo, simboli della Palestina.
Si trattava di personaggi crudeli e spietati, che consideravano gli arabi come inferiori e ritenevano di avere diritto a cacciarli dalle loro terre per far posto agli ebrei. Ad esempio, Ben Gurion sosteneva: “Noi dobbiamo espellere gli arabi e prenderci i loro posti… Dobbiamo usare il terrore, l'assassinio, l'intimidazione, la confisca delle terre e l'eliminazione di ogni servizio sociale per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba”.(16)

Secondo un altro primo ministro israeliano, Menachem Begin (1977-1983), “(I palestinesi) sono bestie che camminano su due gambe”.(17)
Anche altri capi di governo israeliani mostrarono profondo disprezzo per i palestinesi. Ad esempio, Golda Meir negava persino che i palestinesi esistessero: “Non esiste una cosa come il popolo palestinese. Non è come se noi siamo venuti e li abbiamo cacciati e preso il loro paese. Essi non esistono.(18)
Ariel Sharon, in qualità di Ministro degli Esteri disse: "Non c'è sionismo, colonizzazione, o Stato Ebraico senza lo sradicamento degli arabi e l'espropriazione delle loro terre”.(19) E quando diventò Primo Ministro dichiarò: “Israele può avere il diritto di mettere altri sotto processo, ma certamente nessuno ha il diritto di mettere sotto processo il popolo ebraico e lo Stato d'Israele”.(20)
(CONTINUA - SECONDA PARTE)


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SANGUE E ORRORE IN PALESTINA - PARTE SECONDA - Il genocidio palestinese

Di Antonella Randazzo


Non tutti gli ebrei condivisero la violenza e la distruttività delle autorità israeliane, molti cittadini ebrei cercarono di opporsi ai crimini, ma senza successo.
Nel 1912 si formò in Palestina un gruppo di ebrei antisionisti, capeggiato da Agudas Israel. Nel tempo il gruppo aveva ridotto la sua azione, fino a quando, nel 1938, il piano sionista aveva raggiunto un certo livello di realizzazione. Quell'anno nacque a Gerusalemme il gruppo dei Neturei Karta ("Guardiani della città"), che riuniva gli ebrei che non accettavano il piano di formazione dello Stato di Israele, giudicandolo iniquo in riferimento alle interpretazioni della Torah e di alcuni passi del Talmud.
Gli ebrei antisionisti crebbero in tutto il mondo. Alcuni di essi subirono persecuzioni e torture e dovettero andare via dalla Palestina.
Durante la Seconda guerra mondiale i sionisti approfittarono del clima distruttivo per perseguitare ed uccidere tutti quegli ebrei che si rifiutavano di andare a vivere in Palestina, o che avversavano apertamente la formazione di Israele. Ad esempio, gli Judenräte (consigli ebraici sionisti) ebbero un ruolo importante nell'arresto, nella deportazione e nell'uccisione di migliaia di ebrei. Gli Judenräte istituirono un corpo di polizia costituito soprattutto da sionisti, che dotarono inizialmente di manganelli e, alla fine del 1942, di armi da fuoco.
Ad oggi i Neturei Karta vengono ancora perseguitati e criminalizzati, accusati di essere pericolosi estremisti e ultra-ortodossi. Essi però sono semplicemente consapevoli del livello di distruttività creato dalle autorità israeliane, e citano il Talmud per provare che la stessa religione ebraica è contraria all'uso della forza per creare uno Stato. I Neturei Karta sostengono che la Palestina appartiene alle persone che vi hanno sempre abitato, ossia ai palestinesi di ogni religione. Spesso i Neturei Karta protestano insieme ai palestinesi (con la bandiera palestinese), dimostrando che non è vero che la guerra sia dovuta all'odio fra i due gruppi, ma che tale odio è stato alimentato sapientemente da chi ha scatenato la guerra e continua ad aggredire il popolo palestinese.
Gli ebrei antisionisti sostengono che le autorità israeliane hanno utilizzato la religione ebraica per scopi politici, e pretendono di rappresentare tutti gli ebrei pur sapendo che non è così.
In seguito alle persecuzioni e alla criminalizzazione mediatica, oggi i Neturei karta sono diventati un gruppo minoritario. Tuttavia, essi continuano ad agire in coerenza con i loro valori, e nel 2006 hanno partecipato alla conferenza internazionale sull'Olocausto, per dire la loro.
Uno dei personaggi più importanti del movimento è stato il rabbino Amram Blau, secondo il quale il riconoscimento da parte dell'ONU allo stato di Israele si può ritenere un grave atto di ingiustizia verso gli stessi ebrei.
Nel 2005 il leader dei Neturei Karta, il rabbino Israel David Weiss, si schierò dalla parte del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad, facendo notare che i media occidentali travisavano i suoi discorsi, che in realtà non manifestavano affatto "sentimenti antiebraici".
Weiss, alla televisione iraniana disse di essere poco preoccupato per la negazione dell'Olocausto, perché "i sionisti utilizzano la questione dell'Olocausto per ottenerne benefici. Noi, ebrei che abbiamo subìto l'Olocausto, non lo utilizziamo per promuovere i nostri interessi. Noi affermiamo che ci sono centinaia di migliaia di ebrei nel mondo che identificano la nostra opposizione all'ideologia sionista e che pensano che il sionismo non sia uguale all'ebraismo, ma sia solo un'agenda politica".
I Neturei Karta accusano il sionismo di fomentare l'antisemitismo, di aver utilizzato il nome di Israele per un progetto politico, e di continuare a provocare gravi sofferenze nella Terra Santa.

Dal secondo dopoguerra, la situazione fu tenuta sotto controllo dalle autorità statunitensi ed europee, che risultavano particolarmente suscettibili verso il problema del riconoscimento dello Stato d'Israele e verso l'accusa di crimini tremendi contro il popolo palestinese, rivolta alle autorità del nuovo Stato. I mass media ufficiali cercavano in tutti i modi di insabbiare o minimizzare i crimini contro il popolo palestinese, mostrando Israele come una "democrazia" di tipo occidentale.
Ogni persona che si sospettava criticasse Israele, veniva perseguitata in vari modi. Ad esempio, negli anni Cinquanta, quando ancora la canzone italiana era famosa in tutto il mondo, il cantante Marino Marini fu messo sotto accusa perché cantava una canzone dal titolo "Innamorati a Tel Aviv". Si trattava di una canzone melodica, cantata in un video in cui una donna velata, evidentemente araba, ballava all'orientale. Le autorità statunitensi considerarono il far apparire un'araba come abitante di Tel Aviv, un reato, e arrestarono Bruno Martino, che si trovava in tournée negli Usa. Martino era stato scambiato per Marini, e quando si accorsero dell'errore lo tennero in stato di arresto con l'accusa di aver scritto la canzone.
Questo ridicolo e paradossale episodio rende l'idea del clima di tensione che le autorità occidentali creavano verso la situazione in Palestina. Con gli anni questa tensione non si è mai allentata, e ha dato vita ad associazioni (come la Lega Antidiffamazione) che si occupano di accusare, e talvolta perseguitare, coloro che vengono ritenuti "nemici di Israele".
Creare un clima di intimidazione sui fatti d'Israele sarebbe servito anche ad accrescere il rischio di indurre gli studiosi ad alterare l’attività di identificazione ed analisi dei fatti storici relativi ad Israele. Il pericolo, presente anche ai nostri giorni, è quello di adattare gli elementi fattuali a logiche precostituite, per avversare o avvalorare una tesi, nata da pregiudizi assunti sulla base della massiccia propaganda israeliana, oppure da elementi volti a seminare odio verso tutti gli israeliani. Anche eminenti studiosi rischiano di diventare apologeti oppure "sovvertitori", partendo non dall'analisi indipendente e acritica dei fatti, ma dal bisogno emotivo di assumere una posizione ideologica. Chi vuole mantenere inalterata l'attuale situazione in Palestina sa molto bene che risulterà utile creare un clima emotivamente eccessivo, per produrre il paradosso di una realtà in cui sia coloro che occultano i crimini delle autorità israeliane che coloro che li denunciano possono avere la stessa reazione di rifiuto verso l'obiettività storica e verso la possibilità di giungere ad un miglior approccio risolutivo, vincendo l'odio e mostrando al mondo i responsabili del genocidio palestinese. Ad oggi, possono essere facilmente identificati numerosi studiosi condiscendenti verso i crimini delle autorità israeliane, per timore o convenienza. Al contrario, esistono anche persone o intellettuali che riconoscono i crimini delle autorità israeliane, e li estendono a tutti i cittadini ebrei, ritenendo tutti gli israeliani "pericolosi nemici". Ciò equivarrebbe a ritenere che, dato che in Italia c'è la mafia, tutti gli italiani sarebbero da considerare come pericolosi mafiosi. Se è pur vero che le autorità israeliane, aiutate da quelle occidentali (specie inglesi e statunitensi) alimentano ampiamente, e spesso efficacemente, l'odio e le divisioni, è anche vero che la guerra e i crimini sono fonti di sofferenza per tutti gli esseri umani: per chi li subisce, per chi li fa su comando e per chi ne viene a conoscenza. La gente comune, sia essa ebrea, musulmana o cristiana, non trae alcun vantaggio dai crimini e dalle guerre, soltanto il sistema di potere ne trae vantaggio. In nessun caso l'odio e la creazione di un nemico possono costituire modi per contrastare il crimine, essendo essi stessi potenziali fonti di crimine.
Seguire l'impulso emotivo a generalizzare presenta almeno due pericoli: alimentare la figura del "nemico" da combattere (che è il fulcro della guerra) e rendere gravemente compromesso da fattori di squilibrio il naturale impeto di indignazione provocato dalla constatazione dei crimini. La giusta indignazione dovrebbe sfociare in un comportamento volto a condividere la verità e a generare unione fra gli umani, in modo tale che possano essere smascherati gli autori dei crimini e si possa rendere il loro operato (seminare odio, creare nemici, ingannare attraverso i media, creare divisioni, attuare crimini di vario genere, ecc.) sempre meno efficace, fino ad estrometterli dal potere e a trattarli per ciò che essi sono realmente: spietati criminali. Occorre tener presente che anche per ciò che riguarda la situazione palestinese, sono le divisioni, l'odio e gli inganni mediatici ad impedire ai popoli di vedere cosa realmente è nel loro interesse.

Nel 1957, Yasser Arafat fondò l’organizzazione Al Fatah, e nel 1964 nacque L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), con l’obiettivo di combattere l’occupazione e il sionismo. Nel 1968 Al Fatah si unì all’Olp.
Nel 1967 scoppiò la guerra dei Sei giorni, durante la quale Israele occupò il Sinai, il Golan, la Gisgiordania e la striscia di Gaza. Nello stesso anno, la risoluzione 242 dell’Onu chiedeva ad Israele di ritirarsi dai territori occupati.
Nel 1975, l’Onu approvò la risoluzione n. 3379 in cui il sionismo veniva definito come una "forma di razzismo e discriminazione razziale".
Nonostante le numerose risoluzioni dell’Onu, Israele non si ritirerà dai territori occupati, e continuerà ad opprimere e a massacrare i palestinesi. Nel 1987 iniziò la prima Intifada (in arabo "scrollarsi di dosso", "sollevazione" o "rivolta"), come protesta palestinese alle violenze dell’esercito israeliano. Per le strade, i giovani palestinesi gettavano sassi contro i soldati israeliani, che rispondevano sparando e uccidendo.
Nel 1993 si riaprì il dialogo fra il governo israeliano e l’Olp, che portò alla firma dell’Accordo di Oslo, in cui Israele prometteva il ritiro delle sue truppe dai territori occupati dopo la guerra dei Sei giorni. Ma gli accordi non saranno mai rispettati e il governo israeliano riprenderà le azioni terroristiche contro i palestinesi. Si ebbero numerosi attentati terroristici organizzati allo scopo di impedire un vero processo di pace, ad esempio, nel 1994, un israeliano sparò contro i fedeli riuniti in una moschea ad Hebron (Cisgiordania) e uccise 50 palestinesi.
Nel settembre del 2000, Ariel Sharon, un crudele generale diventato capo di governo, si recò con 1000 soldati alla spianata delle moschee di Al-Aqsa, luogo considerato sacro e inviolabile dai musulmani. In questo modo le autorità israeliane intendevano far capire ai palestinesi che il loro dominio poteva essere imposto ovunque. In seguito a questa azione, iniziò la seconda Intifada, a cui l'esercito israeliano rispose in modo pesante, uccidendo moltissime persone, la maggior parte delle quali erano bambini e adolescenti. Dalla seconda Intifada fino al 2004, morirono oltre 8400 palestinesi, per l'82% civili. Inoltre, nello stesso periodo, le autorità israeliane organizzarono altri attentati terroristici ed esecuzioni mirate, uccidendo almeno 308 palestinesi, in violazione della IV Convenzione di Ginevra, macchiandosi di crimini di guerra. Su questi crimini non sono mai state fatte inchieste, come se i soldati israeliani avessero la totale immunità, ovvero il potere di uccidere impunemente qualsiasi palestinese.
Nel 2002 il governo israeliano approvò un documento per la costruzione di un muro che avrebbe separato la Cisgiordania da Israele. Il muro, di 750 chilometri per 8 metri, separa i palestinesi dagli stessi palestinesi, e sottrae loro parte delle terre coltivate, pozzi d'acqua, impedendo l'accesso ai luoghi di lavoro. Inoltre, per costruire il muro sono state distrutte oltre 2.500 case.
I territori assegnati allo stato palestinese dall'Onu, erano, nel 1967, il 45% della regione, mentre nel 2003 erano diventati, a causa delle occupazioni israeliane e del muro, soltanto l'11%.
Lo sgombero della Striscia di Gaza, attuato da Sharon nel 2005, aveva lo scopo di mostrare all'opinione pubblica che era intenzione delle autorità israeliane liberare le zone palestinesi dai coloni. Si trattava di un'operazione propagandistica, per occupare la Cisgiordania e togliere ai palestinesi il 45% del territorio assegnato, impedendo la nascita dello Stato palestinese. Nella Striscia di Gaza si insediarono un milione e duecentomila palestinesi, ma gran parte del territorio rimase sotto stretto controllo delle truppe israeliane.
Oggi Gaza è per i palestinesi come una prigione a cielo aperto, dove vengono controllati giorno e notte e di tanto in tanto subiscono bombardamenti, violenze e distruzioni. Le fabbriche abbandonate dai coloni israeliani sono state chiuse ed è vietato ai palestinesi prenderne possesso. L'economia di Gaza è stata volutamente distrutta dal governo israeliano, per costringere la quasi totalità dei palestinesi a rimanere disoccupati.
La vittoria elettorale di Hamas, del gennaio 2006, scatenerà un'altra furia distruttiva delle autorità israeliane. Per impedire la creazione di un legittimo governo eletto dal popolo, verranno sequestrati 64 parlamentari di Hamas e sarà bombardata per l'ennesima volta la Striscia di Gaza. Le autorità israeliane, in seguito all'aver appreso che i leader di Hamas e di Al Fatah detenuti nelle carceri israeliane avevano fatto sapere di essere disponibili ad accettare lo stato d'Israele, purché venissero istituiti due Stati, scatenarono un'altra ondata di violenza. L'élite israeliana, nella propaganda mediatica, giustificò le violenze dicendo che era obbligata a lottare contro Hamas perché "non accettava l'esistenza di Israele", mentre in realtà si trattava di impedire la formazione dello Stato palestinese.

Lo Stato d’Israele è stato creato con l'obiettivo principale di destabilizzare il Medio Oriente. Gli Usa e i paesi europei hanno finanziato il terrorismo israeliano fin dall’inizio, e ad oggi forniscono ingenti quantità di armi e di finanziamenti. Israele riceve almeno due miliardi di dollari ogni anno per "aiuti militari". Si tratta di denaro che sarà utilizzato per realizzare il progetto di sterminio del popolo palestinese.
Molti ebrei hanno lottato e continuano a lottare contro i crimini delle autorità israeliane. I movimenti dei "refusnik" israeliani sono sempre più organizzati e determinati a fare in modo che la guerra finisca, e attuano numerose iniziative. Ad esempio, nel settembre del 2004, a Tel Aviv, 700 persone parteciparono ad una protesta contro la costruzione del muro. Furono distribuiti volantini che dicevano:

"Dobbiamo abbattere il muro. Comprereste un tostapane usato da Dani Nave (ministro israeliano della salute)? Comprereste una macchina usata da Zahi Hanegbi (ministro per la polizia, sospeso dal servizio)? E allora, come mai comprate dei progetti disastrosi che avranno un'influenza negativa sulle nostre vite per anni da loro e dai loro amici Arik, Bibi, Ehud, e Limor [nomi di vari ministri] e da tutti gli altri interessati da tutte le parti fino ad includere il comitato centrale del Likud? Vi fidate di loro quando dicono che la soluzione ai nostri problemi consiste in recinti, muri, apartheid?"

I resfunik vengono arrestati o perseguitati in vari modi, e descritti dai media ufficiali come persone "pericolose" o "estremiste".
Alcuni militari dell'esercito israeliano hanno scelto di non combattere più, e hanno denunciato gli orribili crimini commessi dalle forze israeliane. Zohar Shapira, ex comandante dell'esercito, così racconta la sua protesta:

"Dopo l'inizio della seconda Intifada, nel 2002, ero impegnato nell'operazione Shield of defence e dopo l'attacco a Jenin ho deciso che non potevo più continuare a fare quello che facevo, era immorale, soprattutto dopo aver sparato sopra la testa di una bambina sbucata improvvisamente da dietro una casa. Entravamo nelle abitazioni dei palestinesi e quando uscivamo portando via qualcuno di loro sospettato di essere un terrorista vedevo gli occhi dei bambini che ci guardavano e capivo che ci avrebbero odiato per tutta la vita. Eravamo noi a seminare l'odio... allora eravamo 6-800 (refusnik) non c'erano più solo soldati di leva ma anche piloti, comandanti. Tanto che il movimento dei refusnik arrivò ad imporsi come un punto di discussione nell'agenda del governo israeliano. Non potevamo più essere indicati semplicemente come traditori da Sharon, i refusnik erano diventati una realtà accettata dalla gente. Ora circa il 40 per cento dei riservisti, quando richiamati, si rifiutano di andare a servire nei territori occupati. Il problema era però come andare al di là delle manifestazioni e diventare più incisivi. Non sapevamo se c'erano palestinesi disposti a parlare con noi, poi abbiamo contattato Tayush (un'organizzazione di palestinesi e arabi di Israele). All'inizio eravamo molto sospettosi, diffidenti, da entrambe le parti".(22)

Il governo israeliano punta a convincere gli israeliani che non ci potrà essere alcuna pace con i palestinesi, perché essi sono "nemici". Molti anni di terrore, di violenze e di guerra hanno fomentato odio da ambo le parti, rendendo sempre più difficili i rapporti. Ciò nonostante, i refusnik contribuiscono ad alimentare la speranza nella pace, come spiega Jeff Halper, coordinatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case (Icahd):

"Molti israeliani non pensano alla pace come a qualcosa di positivo, partono dal principio che gli arabi sono nemici e che non ci sarà mai pace. Per molti israeliani la pace è solo una sorta di 'pacificazione'. In Israele le parole hanno un senso 'orwelliano': pace vuol dire suicidio, la guerra corrisponde alla pace, così come ritirarsi in realtà vuol dire espansione e rafforzamento... Penso che l'ingiustizia sia insostenibile a lungo andare perché contiene i semi della distruzione. Alla fine ci sarà il collasso, e questo non vuol dire che dopo l'ingiustizia ci sarà giustizia, ma che Israele non potrà mantenere a lungo questa situazione".(23)

Aiuti militari massicci giungono in Israele anche dalla Gran Bretagna. Nel periodo luglio-agosto del 2006, l’esercito israeliano ha aggredito il sud del Libano, uccidendo almeno 1100 persone e ferendone 3600. L’attacco era diretto in gran parte contro la popolazione civile, come osservò Amnesty International: (Israele attuava) “una politica deliberata di distruzione delle infrastrutture civili libanesi che comportava crimini di guerra”.(24) La Gran Bretagna ha fornito a Israele numerose armi e il sostegno logistico per il rifornimento degli aerei americani carichi di armi.
Oggi Israele è l'unico Stato al mondo che rifiuta che vengano definite le proprie frontiere, eppure è stato accolto all'Onu. Il mancato riconoscimento delle frontiere indica che Israele ritiene di avere diritto ad occupare nuove terre e non si sente obbligato a rispettare le leggi internazionali e le risoluzioni dell'Onu. Le autorità israeliane hanno interesse a tenere sottomesso il popolo palestinese, per continuare ad esercitare sul territorio un dominio coloniale. Le autorità occidentali sono complici del piano criminale sionista per la sottomissione dei popoli islamici, architettato al fine di saccheggiare le risorse petrolifere e imporre il proprio modello economico-finanziario.

La situazione palestinese non è affatto avulsa dalla più generale situazione di dominio del gruppo di grandi stegocrati banchieri/imprenditori sul pianeta. Al contrario, lo sterminio del popolo palestinese è da ritenere parte del progetto criminale atto a mantenere il potere sui popoli. Gli artefici del progetto non sono da ritenere come appartenenti ad una precisa razza o religione. Essi possono professarsi ebrei o cristiani, tuttavia, dai fatti, possiamo comprendere che la loro unica religione è il crimine contro l'umanità. Si tratta di persone affette da gravi patologie che li inducono a creare una realtà di distruzione, guerra e morte. Esse vogliono controllare l'umanità, e utilizzano le religioni o le ideologie per dividere e per seminare odio e scatenare guerre.
Queste persone sono esperte nel male e nella distruzione. Il loro potere si basa sull'inganno, sull'odio e sulla paura. La loro forza risiede nell'indurre gli esseri umani a credere di avere un "nemico", e dunque a sviluppare odio. L'odio è il sentimento dell'impotenza, della distruttività (etero o auto), fomenta divisioni e guerre, e non rende possibile per l'uomo una realtà migliore di quella in cui impera la sofferenza e la distruttività.
Le persone che oggi dominano sul pianeta non sono "nemiche", esse sono soltanto un gruppo di criminali, non occorre dunque odiarli, che sarebbe la cosa più semplice e immediata, ma si deve fare in modo che esse vengano individuate da tutti come criminali e rese inoffensive. Per fare questo bisogna amare: amare i propri simili, e non permettere che le religioni o le ideologie possano creare divisioni e conflitti. Si deve sentire il dolore del prossimo come fosse proprio. Se abbiamo il giusto senso di noi stessi riconosciamo che l'umanità intera è la nostra famiglia. I palestinesi sono parte di noi, e la loro sofferenza non ci è estranea. Così come la sofferenza degli iracheni, dei somali, degli afghani, dei birmani e di tutti i popoli che oggi stanno soffrendo a causa della criminalità di questo gruppo di persone.
Se i popoli fossero uniti, e se ogni individuo vincesse l'odio, nessun gruppo criminale potrebbe mai mantenere la supremazia.


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NOTE

1) http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/56/56A20041219.html
2) Documenti di politica estera britannica, 1919-1939, prima serie, volume IV, pp. 245-247.
3) Nicosia Francis R., "The Third Reich and the Palestine Question", Tauris, London 1985, p. 57.
4) Edwin Black, "The Transfer Agreement - The Untold Story of the Secret Pact between the Third Reich and Jewish Palestine", New York, 1984.
5) Edwin Black, op. cit.
6) "New York Herald Tribune," 13 giugno 1938.
7) Il Jüdische Rundschau (Berlino) fu pubblicato dal 1900 al 1938. "Rassegna ebraica" del 13 giugno 1933.
8) Journal of Palestine Studies, "i contatti segreti tra sionismo e Germania nazista tra 1933 e 1941" numero primavera/estate 1976.
9) Black Edwin, "The Transfer Agreement - The Untold Story of the Secret Pact between the Third Reich and Jewish Palestine", New York, 1984.
10) "Daily News", 27 marzo 1933.
11) http://www.jewsagainstzionism.com/holocaust/holocaustpics.htm
12) Herzl Theodor, "Diario", Berlino 1922, p. 16.
13) http://www.jewsagainstzionism.com/holocaust/holocaustpics.htm
14) Per approfondire, http://www.jewsagainstzionism.com/onlinebooks/IraqiJews1.htm
15) Intervista al quotidiano israeliano "Ha’aretz", pubblicata da "Internazionale", 6 febbraio 2004.
16) Shabtai Teveth, "Ben Gurion and the Palestine Arabs", Oxford University Press, 1985.
17) Discorso alla Knesset di Menachem Begin, in Amnon Kapeliouk, “Begin and the 'Beasts’”, su "New Statesman", 25 giugno 1982.
18) Dichiarazione al "The Sunday Times", 15 giugno 1969.
19) Agenzia France Presse, 15 novembre 1998.
20) BBC News Ondine, 25 marzo 2001.
21) http://www.ainfos.ca/04/sep/ainfos00444.html
22) "Il manifesto", 4 giugno 2006.
23) "Il manifesto", 4 giugno 2006.
24) "Lebanon: Destruction of civilian infrastructure", Amnesty International, Agosto 2006.


PER APPROFONDIRE

Black Edwin, "The Transfer Agreement - The Untold Story of the Secret Pact between the Third Reich and Jewish Palestine", New York, 1984.
Cockburn Andrew, Cockburn Leslei, "Amicizie pericolose. Storia segreta dei rapporti tra Cia e Mossad, dalla fondazione dello Stato d'Israele alla guerra del Golfo", Gamberetti, Roma 1993.
Filkelstein Norman G., "L'industria dell'Olocausto", BUR, Milano 2002.
Nicosia Francis R., "The Third Reich and the Palestine Question", Tauris, London 1985.
Shabtai Teveth, "Ben Gurion and the Palestine Arabs", Oxford University Press, 1985.

sabato

INFORMAZIONE E INTERNET

(Relazione di Antonella Randazzo esposta alla Conferenza sul tema "Libertà di pensiero o pensiero unico?", Milano, 24 aprile 2008)

Come molti sanno, la rete Internet è nata da un progetto del Dipartimento per la Difesa americano, allo scopo di fornire servizi e informazioni utili ai fini militari. Gradualmente si è diffusa anche per altri usi.
All'inizio la novità della rete apparve assai rivoluzionaria e suscitò molti entusiasmi. Non si trattava soltanto di nuove possibilità d’informazione o di comunicazione. Negli anni Novanta, quando si formarono le prime comunità virtuali, sembrava che la rete potesse stravolgere completamente persino l'assetto socio-politico.
C'era l'idea che Internet dovesse cambiare le regole della politica, rendendo obsoleti concetti come elezioni e rappresentazione territoriale, in quanto le comunità non potevano più essere inserite all'interno di un'arbitraria ubicazione fisica. Attraverso le comunità virtuali sembrava fosse possibile eliminare la politica spettacolo e l'ingiustizia sociale.
Per la prima volta nella storia del pianeta era possibile formare comunità di migliaia di persone che potevano dialogare fra loro senza avere informazioni sull'identità fisica o sul luogo in cui si trovassero. Ciò faceva intendere che si trattasse di rapporti contrassegnati da maggiore libertà, in quanto non condizionati dall'appartenenza etnica, razziale o nazionale. Si parlò addirittura di "ordine post-territoriale", ad intendere che la maggiore libertà nei rapporti sociali potesse generare anche maggiore libertà politica. Era come se i governi territoriali potessero perdere potere e si potesse instaurare una vera democrazia. Dave Clark, un personaggio che ebbe un ruolo nello sviluppo di Internet negli anni Settanta e Ottanta, ebbe a dire: "Rifiutiamo re, presidenti e votazioni. Crediamo in un consenso generalizzato e in un codice operativo".(1)
Ben presto si poté vedere che si trattava di un'illusione. Internet, come tutti gli altri canali mediatici apparve nel tempo come un canale controllato dalle stesse persone che controllano gli altri media.

Col passar degli anni Internet dunque diventò un canale mediatico di informazione e comunicazione. Tuttavia la rete possiede caratteristiche che stravolgono la logica dei mezzi di comunicazione di massa tradizionali. Infatti, mentre giornali, radio e T.V. presentano l’informazione veicolata, filtrata da pochi operatori, con Internet, invece, chiunque può pubblicare e divulgare notizie.
L'informazione in rete è unica nel suo genere perché c'è una multi-direzionalità delle comunicazioni, ovvero l'interazione fra chi pubblica e chi legge, rendendo la rete un mezzo simultaneo di pubblicazione e di comunicazione. In altre parole, a differenza dei media tradizionali, in rete ogni utente può ricevere e trasmettere informazioni.
In tema di diritti e doveri la Rete evoca il diritto a comunicare, ad esprimere idee e ad essere informati.
Il diritto a comunicare è garantito nell’art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, collegato alla libertà d’espressione e d’opinione, e considerato come uno dei diritti democratici per eccellenza.
Nel dicembre del 1976 la Corte europea lo ha definito come "uno dei fondamenti irrinunciabili di una società democratica, una delle condizioni primordiali per il suo progresso e per la realizzazione di ognuno".

Anche su Internet, dunque, dovrebbe essere garantito il diritto a comunicare e ad informare.
Il diritto alla libertà di pensiero e all'informazione comprende il diritto ad essere adeguatamente informati dai mass-media e il diritto a poter esprimere le proprie idee senza essere intimidito dalle autorità. Su questo si basa il concetto di democrazia, ovvero la sovranità popolare deve essere garantita anche attraverso la formazione di un'opinione pubblica libera, e tutelata dalla pluralità delle informazioni e idee circolanti.

Oggi l'87% dei siti Internet è in lingua inglese, e gli Stati Uniti hanno l'egemonia su Internet, potendo limitare l'accesso a tutti i siti della rete, in ogni paese.
Infatti, attualmente la rete mondiale è gestita dalla Icann (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), un organismo di diritto privato con sede a Los Angeles, controllato dal dipartimento del commercio degli Stati Uniti. L'Icann è un enorme sistema di smistamento della rete, basato su un dispositivo costituito da tredici potenti computer, detti "root servers". Dieci di questi computer si trovano negli Stati Uniti (quattro in California e sei nei pressi di Washington), due in Europa (Stoccolma e Londra) e uno in Giappone (Tokyo). Le autorità statunitensi, se volessero, potrebbero rendere inaccessibili i messaggi elettronici, in qualsiasi luogo del pianeta.

Oggi la rete Internet può essere utilizzata quasi esclusivamente nelle aree ricche del pianeta, ossia è appannaggio del 10% della popolazione mondiale. Il restante 90% ne è escluso, così come del resto è escluso dal benessere o dallo stile di vita delle aree ricche del Primo mondo.

Secondo i dati ISTAT del 2007, il 43% delle famiglie italiane ha l’accesso a Internet (in Europa la media è del 54%). Oggi si usa Internet per vari scopi, per informarsi, fare acquisti, socializzare ecc.
Sulla rete Internet è possibile avere informazioni che non verranno mai date attraverso canali ufficiali, per questo essa genera maggiore fiducia rispetto alla TV e alla stampa, e si percepisce come meno manipolatoria e controllata. Tuttavia non bisogna illudersi che su Internet ci si possa informare su tutto.
Sulla rete circolano molti contenuti censurati altrove, ma questo non significa che essa sia priva di controllo. Ad esempio, Wikipedia viene definita come un'enciclopedia libera perché scritta da tutti, ma in realtà non è proprio così. Negli ultimi tempi, Wikipedia ha raggiunto un'importanza enorme, e persino motori di ricerca come Google danno la priorità alle sue voci, assegnandole così un grande ruolo informativo. Da numerosi fatti però si comincia a capire che all'interno di Wikipedia agisce una "mano invisibile" che toglie, aggiunge o cambia.
Il Wikiscanner è un software elaborato dallo studente americano Virgil Griffith, che permette di identificare l'origine delle modifiche fatte alle voci dell'enciclopedia Wikipedia. Attraverso il Wikiscanner si scoprì che c'erano "operatori", che cambiavano, toglievano o aggiungevano contenuti. Queste persone sono state identificate come operatori della Cia, del Vaticano, delle Nazioni Unite e di numerose grandi corporation.
Alcune definizioni di Wikipedia venivano per così dire "corrette", togliendo aspetti che non si volevano divulgare perché rivelavano fatti negativi del sistema. Da ciò deriva un'enciclopedia "manipolata", in cui le cose più "scottanti" sono censurate o mistificate.

Anche se in alcuni luoghi della rete Internet è possibile attingere ad una libera informazione, occorre tenere presente che dal rapporto Eurispes 2008 risulta che soltanto il 13,5% si informerebbe sulla rete, mentre oltre l'80% si informa tramite la TV, i giornali e la radio, che offrono in molti casi un'informazione parziale e mistificata.
In alcuni casi, l'informazione che gli utenti ricavano da Internet appare meno articolata e approfondita rispetto a quella pubblicata sul cartaceo. Infatti, gli stessi quotidiani ufficiali, come il "Corriere della Sera", "La Repubblica "e "Il Tempo", pubblicano sui loro siti web articoli più brevi, che semplificano la questione, con conseguenze sulla qualità del dibattito giornalistico. Su Internet, dunque, è d'uso una forma breve di comunicazione giornalistica, con resoconti più superficiali o appiattiti. Ciò avviene anche perché il navigatore è abituato ad essere piuttosto frettoloso, o perché lo schermo non è adatto ad una lunga lettura.
Chi si informa tramite Internet, non ha accesso agli editoriali più lunghi e articolati dei giornali ufficiali, e spesso nemmeno alle pagine di approfondimento culturale, politico o economico. In tal modo, si induce a credere che si possa accedere all'informazione attraverso brevi resoconti, privi talvolta di quegli elementi da cui potrebbero scaturire domande o giusti collegamenti fra gli eventi.
Gli articoli on line tendono in molti casi ad essere anonimi, anche se pubblicati su siti di testate ufficiali ("La Repubblica", "Il Corriere della Sera", ecc.), o forniti direttamente dalle grandi agenzie di informazione (Ansa, Reuters, CNN, ecc.). Si tende a non promuovere specifiche personalità giornalistiche, in modo tale da rendere la professione giornalistica poco appetibile per le nuove generazioni, e per restringere al massimo il prestigio e l'influenza di precise personalità, accrescendo in tal modo il potere delle agenzie di stampa e degli editori.
Le fonti su cui vengono basate le notizie sono talvolta inesistenti o anonime, specie quando si tratta di notizie su paesi esteri o sul cosiddetto "terrorismo". Talvolta le fonti citate sono il governo (nel 40% dei casi), i documenti scritti (13%) o persone direttamente coinvolte nei fatti (12%).(2)
In questi casi, gli utenti, come avviene alla Tv, hanno l'impressione di essere stati informati, ma in realtà sarebbe necessario che si andasse ad approfondire su altre fonti cartacee o web, e dunque una vera informazione richiede un impegno che pochi oggi possono o sono disposti ad avere. Il risultato è che non si forma una libera opinione pubblica, che richiede necessariamente pluralismo di fonti e informazione chiara e dettagliata. Nell'attuale situazione la maggior parte della popolazione viene condizionata dalla scarsa qualità e dalla impegnativa reperibilità delle notizie.

L'informazione su Internet è limitata anche in ordine alla nazione, alla possibilità di approvvigionamento delle informazioni e alle distorsioni o falsità che vi si trovano. Ad esempio, notizie pubblicate soltanto in lingua araba o nell'alfabeto cirillico (usato per scrivere varie lingue slave) non saranno attinte dagli europei occidentali. In Italia arrivano poche notizie sulle ex repubbliche sovietiche, sui Balcani o su paesi arabi come l'Arabia Saudita. Semplicemente le notizie non ci sono, non sono tradotte nelle lingue occidentali. Di conseguenza chi scrive su siti d'informazione indipendente non può riportarle perché non può attingerle da nessuna fonte, a meno che non vada direttamente in quei paesi o abbia contatti con persone che vivono lì.
Non ci accorgiamo di quello che non c'è se non è possibile trovarlo da nessuna parte: né su giornali, Tv o libri. Dunque la nostra informazione, nonostante Internet, è parziale ed esclude alcune aree considerate "scottanti" dalle nostre autorità.
Inoltre, le informazioni reperibili su Internet risentono del cosiddetto "gatekeeper", ossia della selezione e della disponibilità di accesso. Esistono criteri preselezionati di approvvigionamento dell'informazione. Tali criteri possono derivare da "gatekeeper" non istituzionali (attraverso il passaparola e le comunità)"(3) o da metodi informatici.
Ciò nonostante bisogna riconoscere il ruolo assai importante svolto dai siti di informazione indipendenti, e la vivacità che si può trovare in diversi forum o blog.

Da recente, alcuni studiosi hanno messo in evidenza che Internet non è soltanto un canale tecnologico di informazione o di attività sociali ed economiche, è anche un luogo virtuale che produce effetti sul pensiero e sul comportamento. Su Internet si comunica, e la comunicazione è un rilevante fatto sociale. Addirittura alcuni autori, come la professoressa di Economia Andreina Mandelli ritengono che si debba "pensare alla rete come modello di organizzazione dei nostri pensieri e della nostra socialità".(4) Non è difficile capire quanti pericoli sono insiti nella possibilità che sia un mezzo tecnologico a condizionare la nostra esistenza a tal punto da determinare forme di pensiero e di socializzazione.
Il modello di comunicazione che la rete offre ha caratteristiche precise, che sfuggono alla maggior parte degli utenti, che dunque risentono inconsapevolmente degli effetti.
Molti studiosi del settore sociologico ed economico producono giudizi sostanzialmente positivi sulla crescita dell'uso di Internet. Questi autori danno per scontato che la tecnologia sia "evolutiva", partendo da assunti epistemologici darwiniani. Assumono implicitamente l'idea che i progressi tecnologici possano rappresentare anche una crescita intellettuale, morale o sociale. E non tengono conto del potere che attraverso questi canali si può acquisire, e degli effetti peggiorativi sulle potenzialità cognitive dell'uomo.
Gli aspetti negativi di Internet, da capire e contrastare, sono diversi. Il contesto della rete è "asettico", non reale, privo della percezione di oggetti o persone reali, manca l'emotività e l'interazione sociale complessa che soltanto nella realtà si può avere. Gli escamotage per esprimere parte delle emozioni, come il viso allegro o le interiezioni, non ci diranno mai qual'era il vero tono o l'espressione del viso che li accompagnava.
Se definiamo la comunicazione come quell'insieme di possibilità di condividere conoscenze, esperienze e valori, atti a costruire nuovi modi di essere e nuove identità, comprendiamo come il computer non può sostituirsi alla realtà, anzi, può essere nocivo nella misura in cui ci fa credere di poter fare a meno dell'esperienza reale, sostituendola del tutto o in parte con quella virtuale.
Internet non stravolge vecchi equilibri in modo evidente, al contrario, agisce in silenzio, gradualmente, e i suoi effetti sono prodotti in modo inconsapevole. Tende ad eliminare la libera costruzione di simboli e significati, per imporre una realtà predeterminata, a cui l'utente deve passivamente adattarsi, senza accorgersi che le regole dello spazio virtuale non sono quelle della realtà, e che c'è qualcuno che le crea.

Dunque lo schermo, imitando le cose reali, crea esso stesso una realtà, che incide sugli utenti attraverso l'inconsapevolezza e l'abitudine.
Il problema è capire come tale realtà virtuale incide sul nostro modo di costruire la conoscenza, di condividerla e di vivere le nostre potenzialità empatiche. Essa può avere il potere di cambiare l'esistenza, modificando i rapporti sociali e le potenzialità cognitive degli individui.
Addirittura molti studiosi ipotizzano la riduzione delle complesse potenzialità umane, attraverso l'impoverimeno della qualità delle relazioni sociali, private da risorse che il computer non potrà mai avere, come l'intuito o la capacità di complessi collegamenti semantici.
In altre parole, la ricchezza della comunicazione e della conoscenza "reale" può essere limitata in qualità e quantità. Il filosofo Ray Kurzweil prevede nel futuro una vera e propria invasione tecnologica che sopprimerà le potenzialità umane:

"I computer saranno... dappertutto: nei muri, nei tavoli, nelle sedie, nelle scrivanie, nei gioielli, nei corpi... le persone cominceranno ad avere relazioni con personalità automatiche e le useranno come amici, docenti, domestici e amanti... La maggioranza della comunicazione nel mondo non prevederà l'intervento umano. La maggioranza delle comunicazioni degli umani sarà con una macchina... Non ci sarà più una distinzione precisa tra umani e macchine".(5)

Sembra uno scenario irreale quanto agghiacciante, ma rivela la possibilità che la tecnologia possa diventare gravemente intrusiva, e che mentre gli oggetti tecnologici diventeranno sempre più attivi nel produrre effetti, gli umani saranno sempre più passivi nel subirli. La diminuzione delle potenzialità cognitive è stata graduale nel tempo: dalla trasmissione di sapere orale, che vedeva il notevole utilizzo della memoria, alla trasmissione scritta, fino alla codificazione tecnologica del sapere, che richiede l'accettazione passiva delle sue regole implicite.
Fino a pochi secoli fa le persone comuni potevano conoscere la realtà nei suoi aspetti essenziali, e padroneggiarla attraverso l'attività. Gradualmente, con gli sviluppi scientifici e tecnologici, è stato inserito l'uso di macchine complesse che la persona comune utilizza senza conoscere appieno né le caratteristiche tecnologiche né gli effetti. La complessità e il determinismo delle nuove macchine hanno prodotto un senso di accettazione passiva di aspetti della realtà che pur appaiono estremamente importanti e condizionanti.

Su Internet le informazioni viaggiano anche su luoghi virtuali privati come i forum e i blog.
Tuttavia, le caratteristiche della rete possono rendere tale trasmissione di informazioni non pienamente costruttiva, anche quando le informazioni date sono corrette. Ciò accade perché i gruppi che comunicano in questi luoghi possono acquisire caratteristiche non funzionali alla produzione di cultura o alla formazione di un’opinione pubblica articolata e consapevole.
L'esistenza di una sempre più numerosa comunità globale "virtuale" potrebbe produrre pochi autonomi pensatori e molti gruppi omogenei che tenderanno all'autoreferenzialità, diventando fazioni. La mancata complessità comunicativa reale favorisce rapporti basati sull'aggregazione ad un gruppo in cui si svilupperà un alto grado di coesione interna e di rigidezza mentale, che possono portare all'intolleranza verso chi dissente o all'esclusione dell'"intruso".
Molti soggetti delle comunità virtuali, non potendo disporre di interazioni empatiche, emotive o intuitive, sviluppano la comunicazione con l'altro come un proseguimento della realtà dell'ego, improntata ad aspettative di tipo egoico, ossia che l'altro sia quanto più possibile simile a loro stessi. In tal modo, il senso di gruppo si trasforma in un reciproco riconoscimento dell'ego, che soffoca le differenze e produce radicalità di opinioni.
Non saranno dunque la tolleranza o la capacità di imparare dall'altro a guidare i rapporti, ma la ricerca di conferme della propria identità, e la rivendicazione della differenza rispetto ad altri gruppi considerati inadeguati.
Si acquisisce così uno schema cognitivo rigido, in cui risulta difficile il cambiamento, che nella realtà è prodotto dalle esperienze sociali o culturali. I "gruppi virtuali", anche quando nascono per criticare la realtà con l'intento di migliorarla, di fatto possono spegnere l'attivismo e creare un mondo statico perché sostanzialmente privo dell'impulso vitale umano che produce crescita e cambiamenti.
Perdendo il contatto emotivo con l'altro si diventa più rigidi e intolleranti quando ci si trova di fronte ad opinioni discordanti rispetto alle proprie, fino a ritenere di non poter dialogare con persone che la pensano diversamente.
Il pericolo presente sulla rete Internet è dunque quello di formare gruppi che sfogano la rabbia e la frustrazione attraverso insulti e critiche superficiali, confermando vecchie etichette e stereotipi, come quello del "ribelle al sistema arrabbiato", o del "capo carismatico irriverente".

In rete esistono anche gli "infiltrati", ossia persone pagate per controllare i forum o i blog indipendenti, e per intervenire in vari modi a intralciare o diminuire gli effetti positivi che gli utenti potrebbero avere. Si tratta di poche persone riconoscibili perché utilizzano le stesse categorie che vengono utilizzate dalla propaganda dei mass media.
Queste persone si introducono nei forum o nei blog e cercano con varie tecniche di manipolare o aggirare le idee che vengono espresse. Agiscono inizialmente facendo elogi e apprezzamenti positivi, fino a trovare il punto su cui sollevare polemiche e critiche. In tal modo viene svilito lo scopo costruttivo del forum, e a poco a poco viene creato un clima di opposizione o di antagonismo che esclude ogni possibilità di conciliare la controversia.
Altre tecniche utilizzate da queste persone sono: etichettare con parole come "fascista" "razzista" "nazista" o "antisemita". Oppure distorcere i significati, fare interventi di propaganda, scrivere post inutili, attirando l'attenzione su particolari irrilevanti, al fine di distoglierla dai punti importanti.
Dunque l'apparenza democratica di cui viene ammantata la rete Internet risulta in molti casi del tutto falsa.
Tuttavia la rete svolge un ruolo efficace nell'informare su argomenti non trattati dai media ufficiali.

Come abbiamo detto prima, il diritto a comunicare o ad esprimere liberamente le proprie idee è un diritto indispensabile all'esistenza di una democrazia. Eppure nel nostro paese c'è in atto un tentativo di negarlo o renderlo più difficile.
Lo scorso anno, l'allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del governo Prodi, Ricardo Franco Levi, ha elaborato un testo di legge per limitare la libertà di pensiero su Internet. Il disegno di legge, dal titolo “Nuova disciplina dell'editoria e delega al Governo per l'emanazione di un testo unico sul riordino della legislazione nel settore editoriale”.
è stato approvato all'unanimità dal Consiglio dei ministri il 12 ottobre 2007. Alcuni ministri, come confessa lo stesso Di Pietro non lo avevano nemmeno letto.
Curiosamente, proprio diversi ministri che lo hanno votato sono i più critici verso questa legge. Ad esempio lo stesso Ministro delle Comunicazioni Gentiloni dichiarò al quotidiano "La Stampa" che “Non si può estendere la logica della legge sulla stampa alla rete. Il difetto della norma era la definizione, così generica da rinviare all’autorità sulle Comunicazioni una palla avvelenata. Non bisogna discostarsi molto dalla normativa vigente”. Facendo capire di voler abrogare l'Art.7, che minaccia i bloggher di poter essere trascinati in tribunale per diffamazione.
C'è da chiedersi come mai il ministro abbia approvato un legge che considera ingiusta.

La legge Levi-Prodi obbligherebbe ogni bloggher ad avere una società editrice e un giornalista iscritto all’albo come direttore responsabile.

La legge inoltre definisce il prodotto editoriale in modo ampio, definendolo: "qualsiasi prodotto contraddistinto da finalità di informazione, di formazione, di divulgazione, di intrattenimento, che sia destinato alla pubblicazione, quali che siano la forma nella quale esso è realizzato e il mezzo con il quale esso viene diffuso". In tal modo farebbe rientrare anche i blog in questa definizione, che sono spazi gratuiti dati a privati per scrivere le loro idee, o pubblicare immagini.
Lo scopo di poter far rientrare ogni libera espressione di idee nella definizione di "prodotto editoriale" è quello, ovviamente, di controllarlo e di poter perseguire penalmente l'autore, in modo tale da metterlo fuori gioco. Con la definizione di "prodotto editoriale" il giovane che esprime le proprie idee viene comparato all'attività editoriale dei grandi gruppi come "L'Espresso" o il "Corriere della Sera." Il risultato è che il piccolo bloggher non potrà avere mezzi finanziari o protezioni politiche in possesso dei grandi imprenditori, e di conseguenza potrà essere facilmente spazzato via dalla scena.

In realtà chi apre un blog non è necessariamente un editore, perché può farlo semplicemente per raccontare se stesso o per esprimere le sue idee. La legge Levi-Prodi vorrebbe imporre l'iscrizione al Registro degli operatori di comunicazione (ROC), poiché altrimenti si potrebbe più facilmente essere colpiti dalle persecuzioni giudiziarie, accusati di reati come la diffamazione. Questo è un chiaro segno di intimidazione, infatti, i bloggher, sapendo di poter essere facilmente perseguitati penalmente potrebbero avere timore e procedere talvolta ad attività di autocensura.
Questo è una caratteristica dell'attuale sistema: si spinge il cittadino ad agire esso stesso contro i propri diritti e interessi.

Sulla rete si leggono diversi articoli che sostengono che la legge Levi-Prodi è stata proposta allo scopo di censurare Grillo. Ma si deve notare che in realtà Grillo probabilmente non ne risentirebbe perché essendo un personaggio noto e in possesso di mezzi finanziari potrebbe facilmente trovare modo di andare avanti comunque, mentre i piccoli bloggher sconosciuti e con scarsi mezzi finanziari sarebbero penalizzati e distrutti.
La legge Levi-Prodi fa emergere la gravità della situazione dell'informazione e della libertà di pensiero in Italia. Infatti, ormai sembra che tutti gli italiani debbano accettare leggi repressive della libertà, approvate senza più discuterle, come se vi fossero diktat dall'alto, criticate dagli stessi politici che le approvano, e che in tal modo fanno intendere ai cittadini di essere dalla loro parte, per continuare ad essere votati.
Dobbiamo trarre la conseguente conclusione che l'informazione corretta, pluralistica e necessaria alla formazione di un'opinione pubblica libera, non appare presente nei media ufficiali, e risulta di difficile appannaggio anche su Internet, senza però tralasciare che sulla rete è possibile trovare moltissime informazioni che i media ufficiali non danno, e per questo essa può essere oggetto di attacchi da parte delle autorità governative.
Anziché rendere anche i canali ufficiali, pagati con denaro pubblico, più obiettivi, indipendenti e pluralistici, si cerca di sopprimere la maggiore informazione che la rete offre.
Non è certamente accettabile una realtà in cui i cittadini vengono privati del diritto ad un'informazione corretta e pluralistica, che è la base di ogni vera democrazia.


NOTE

1) Borsook Paulina, "How Anarchy Works", Wired n. 110, October 1995.
2) Van der Wurff Richard, "I giornali cartacei e on-line in Europa", http://www.lsdi.it/dossier/giornalionline/cap3.html
3) Mandelli Andreina, "Il mondo in rete", Egea, Milano 2000, p. 193.
4) Mandelli Andreina, "Il mondo in rete", Egea, Milano 2000, p. 9.
5) Kurzweil Ray, "The age of spiritual machines", Viking Press, London 1999.

lunedì

Conferenza sul tema: LIBERTÀ DI PENSIERO O PENSIERO UNICO?

giovedì 24 aprile 2008
alle ore 20,30
Presso l’aula magna del LICEO SCIENTIFICO “SEVERI”
Bastioni di Porta Volta, n° 16 - MILANO
(MM2 Moscova, TR M, 3-4-12-14, BUS, 94-51-57-70-41-43-94)
si terrà la Conferenza sul tema:
LIBERTÀ DI PENSIERO O PENSIERO UNICO?


Molti ormai sanno che il potere mediatico è oggi quasi completamente nelle mani di poche persone. Le stesse che creano un sistema politico-economico basato sulla legge del più forte e sul controllo dei popoli.
In tale contesto è possibile provare l'esistenza di sottili tecniche di coercizione, di diseducazione e di appiattimento culturale, dirette contro ognuno di noi, come un affronto alle nostre menti e alla nostra dignità di cittadini.
La Conferenza è un’occasione di confronto pubblico su un tema assai rilevante e fondamentale per una lucida valutazione della democrazia e delle sue imitazioni.

Partecipano all’incontro
GIANNI VATTIMO
PAOLO BARNARD
ANTONELLA RANDAZZO
Coordina
PAOLO SENSINI

giovedì

SCHIAVITÙ E IMMIGRAZIONE

Di Antonella Randazzo


Sin da piccoli, a scuola, impariamo che negli ultimi secoli la cultura occidentale si è evoluta a tal punto da creare sistemi democratici, in cui i popoli possono espandere le loro potenzialità. Impariamo che fenomeni come lo schiavismo o le repressioni nel sangue dei popoli sono vicende di epoche passate o casi rari.
Si ha un enorme progresso intellettuale quando si giunge a comprendere che tutto questo è falso. All'inizio può essere piuttosto shockante, in quanto proprio sul progresso culturale e sui valori umani avevamo fondato la nostra fiducia verso il mondo. Ma si trattava di illusioni, alimentate con lo scopo di far apparire le autorità occidentali quello che non sono e non sono mai state.
Oggi il concetto di "sovrano" è stato sostituito col più moderno concetto di "presidente eletto", ma ieri come oggi esiste, più forte che mai, il potere di un ristretto gruppo, che indebita gli Stati, fomenta guerre e riduce i popoli in miseria. Persino la schiavitù, non soltanto non è mai scomparsa, ma negli ultimi decenni ha raggiunto livelli mai toccati prima.
Secondo le stime dell'organizzazione Anti-Slavery International, oggi ci sono nel mondo oltre 200 milioni di schiavi. Pino Arlacchi, nel suo libro dal titolo Schiavi. Il nuovo traffico di esseri umani, scrive:

"Le dimensioni dell'attuale schiavitù fanno impallidire le cifre del passato: secondo i calcoli molto accurati prodotti dagli studiosi statunitensi... sulla tratta degli esseri umani tra l'Africa e il Nuovo Mondo, le vittime di quel traffico non hanno superato i 12 milioni di persone nell'arco di quattro secoli".(1)

Oggi, dunque, esistono molti più schiavi di quanti ne esistessero nel periodo in cui la schiavitù era legalizzata. Gli schiavi del mondo contemporaneo non hanno catene ai piedi, ma vengono ridotti in totale asservimento grazie all'estrema povertà o a tecniche di manipolazione mentale sofisticate, che li inducono a ritenere di non aver altra scelta che quella di dover sottostare ai loro aguzzini.
La schiavitù nel mondo attuale può essere di due tipi: schiavitù praticata nel luogo in cui si la vittima è nata, oppure schiavizzazione in seguito all'emigrazione. La persona schiavizzata viene costretta a ritmi lavorativi interminabili, oppure a mercificare il proprio corpo. In Indonesia, in Birmania, ad Haiti e in molti altri paesi del Terzo Mondo, esistono molte persone schiavizzate attraverso il lavoro. Queste persone sostengono ritmi di lavoro terribili, e non hanno alcun diritto, nemmeno alla vita. Sono le cosiddette "catene di lavoro globali", che negli ultimi decenni sono state impiantate dalle grandi corporation nei paesi del Terzo Mondo. In queste fabbriche vengono prodotti capi di abbigliamento, giocattoli, scarpe, borse, e molti altri oggetti che saranno venduti nel mondo ricco dalle marche più note (Nike, Adidas, Walt Disney, grandi firme della moda, ecc.). Questi luoghi infernali vengono tenuti nascosti. Il giornalista John Pilger raccontò di essersi trovato a visitare una di quelle fabbriche e di aver visto "le ragazze si piegavano di fronte alle macchine che mulinavano, sibilavano, fasciavano. Molte di loro avevano gli occhi gonfi e le braccia lacere. Non c'erano protezioni, e un grosso uomo sbraitava ordini. Quando tirai fuori una telecamera, venni buttato fuori".(2)

Esiste una vasta organizzazione che si occupa delle persone schiavizzate dei paesi del Terzo Mondo. Si tratta di persone protette dal sistema, che anche quando vengono smascherate come responsabili di veri e propri eccidi, scontano pochi anni o vengono assolte per insufficienza di prove. Queste persone sono talvolta incaricate di organizzare i cosiddetti "viaggi della speranza", con mezzi precari e con un alto rischio di morte per gli sventurati emigranti. Lo scopo di questi viaggi è di far uscire dal loro paese una certa quantità di persone, sapendo che alcune moriranno durante il viaggio, e altre saranno schiavizzate o mercificate nei luoghi dove giungeranno. La schiavizzazione sarà resa facile delle leggi che identificano queste persone come "clandestini", privandole del riconoscimento dei loro diritti in quanto esseri umani.

Anche le autorità del nostro paese, essendo in sostanza i rappresentanti del gruppo egemone, si comportano in modo criminale verso gli immigrati, e hanno mostrato in diversi casi di non dare alcun valore alle loro vite. I comportamenti criminali delle autorità emergono soltanto in quei rari casi in cui ci sono testimoni, che portano alla luce l'evento criminale. Ad esempio, in seguito al naufragio della vecchia nave della marina inglese F-174, alcune persone riuscirono a far emergere l'eccidio, nonostante le autorità e i media cercassero di minimizzare i fatti o di negarli. Il viaggio era stato organizzato da Ahmed Sheik Turab, detto "mister Tony", che aveva procurato dapprima la nave Iohan e poi, per sbarcare, aveva caricato 314 persone in una barca fatiscente costruita dalla marina inglese nel 1944. La nave si scontrò con la Iohan e affondò al largo di Portopalo di Capo Passero (provincia di Siracusa), la notte di natale del 1996.
Su quella nave accaddero cose agghiaccianti, come raccontarono i sopravvissuti al naufragio. Dei 314 immigrati, 283 morirono, e i sopravvissuti, per evitare che raccontassero i fatti, furono portati in Grecia e rinchiusi in una zona agricola del Peloponneso, controllati da una guardia armata. Uno di essi, Shahab Ahmad, riuscì ad aggredire la guardia e a scappare insieme agli altri. I naufraghi cercarono la polizia per raccontare i fatti, ma trovarono molti ostacoli sia dalle autorità greche che da quelle italiane. Ciò fa intendere con chiarezza che le organizzazioni criminali che si occupano di immigrati fanno parte del sistema e sono dunque protette.
La notizia di un possibile naufragio fu data a partire dal 4 gennaio 1997, ma con scetticismo e cercando di minimizzare i fatti. Ad esempio, l'Ansa scrisse: "Con un certo scetticismo le autorità greche e di altri paesi del mediterraneo stanno indagando sulla grande tragedia del mare... al momento... non una traccia che sia tale è stata trovata in mare".
Nessuna agenzia di stampa parlò di corpi o di oggetti che potessero provare l'avvenuta tragedia, né delle testimonianze dei sopravvissuti, come se essi non contassero nulla. Alcuni naufraghi avevano raccontato che la nave F-174 era stata affondata volontariamente, per "eliminare" gli immigrati. Spiegò Shahab Ahmad:

"Un incidente? Lo sarebbe stato se anche il comandante Zervoudakis avesse rischiato di morire. Invece le cose non sono andate così. Io me lo ricordo bene: la Iohan ci è venuta addosso volontariamente... La Iohan ha viaggiato per circa un mese. Tutto l’equipaggio era molto duro, ci davano da mangiare quando volevano loro, e anche da bere. Il 24 dicembre, verso le dieci di sera, ci hanno detto: state pronti. E’ arrivata questa piccola imbarcazione. Noi la conoscevamo, perché era quella che portava le provviste alla Iohan. Qualcosa da mangiare, e soprattutto parecchio alcol per il capitano e per l’equipaggio. Spesso a bordo c’era Tourab, che era molto amico di El Hallal, bevevano sempre insieme. Ma quella notte Toruab non c’era. A guidare la F-147 era Zervoudakis. Avevamo paura perché sapevamo che quella barchetta poteva contenere 80 persone: siamo saliti in 317. Ma per noi solo una cosa era chiara: la morte era di qua o di là. E poi comunque ci spingevano. Io mi sono seduto vicino al timone... Quando sentiamo che c’era acqua nella stiva, lo diciamo a Zervoudakis, che contatta la Iohan con un telefono, diceva sempre ’dexi, dexi’, che non so cosa significa. La Iohan inizia ad avvicinarsi, velocemente. Ma cinque minuti prima che ci venisse addosso, Zervoudakis si è messo il telefono nella tasca dei pantaloni e si è buttato in acqua... Era chiarissimo: noi avevamo capito da un po’ di tempo che il viaggio era strano. Non abbiamo mai visto né un albero, né terra, niente, per quattro mesi. L’equipaggio ci dava da mangiare pochissimo. Non ci hanno mai fatto fare la barba, o tagliare i capelli. Ormai eravamo dei mostri. Sembrava proprio che non sapessero che farsene di noi. E poi, quel Zervoudakis, come se sapesse. E che si salva". (3)

Shahab raccontò anche di un ragazzo ferito fu ributtato in mare su ordine del comandante Zervoudakis: "Me lo ricordo bene era un ragazzo giovanissimo, riccio, con un bracciale al polso. Non so come si chiamava. Ma so che era vivo, la corda l’aveva raggiunta a nuoto, nonostante avesse preso un colpo in faccia e buttava sangue".

Per partire gli immigrati avevano pagato 7 mila dollari a testa, e avrebbero dovuto pagarne altri 7 mila arrivati in Italia. Una cifra enorme per chi vive nella miseria e nella disperazione.

Il giornalista di "Repubblica", Giovanni Maria Bellu, autore del libro "Il fantasma di Portopalo", spiega:

"Secondo stime di associazioni umanitarie, c'è anche uno studio di un'università inglese... sono morte nel tentativo di raggiungere l'Europa, dalla metà degli anni Novanta a oggi, tra le 10 e le 20.000 persone. Nell'estate del '96 si è verificato un fenomeno, il numero degli arrivi è diminuito del 4% però il numero degli sbarchi è raddoppiato. Significa che vengono utilizzate barche più piccole senza scafista. Le barche sono molto leggere... e ogni barca trovata capovolta significa 25 morti".(5)

Si tratta di stragi che avvengono quasi ogni giorno. Oltre ai morti per annegamento ci sono i morti per disidratazione nel deserto del Sahara e quelli per soffocamento nascosti nei Tir. Si tratta di migliaia di morti, che non saranno mai commemorati. Per loro nessuno chiederà mai minuti di silenzio, né ci saranno mostre o musei sulla loro terribile sofferenza. La maggior parte degli immigrati morti ha la tomba in fondo al mare, senza identità né memoria.
Nel caso della F-174 non ci furono soltanto i sopravvissuti a testimoniare della tragedia. A partire dal 2 gennaio, i pescatori iniziarono a notare che nelle reti andavano a finire scarpe, indumenti e persino corpi in decomposizione. Un pescatore andò a notificare il fatto alle autorità ma si trovò la nave sequestrata e rimase bloccato per giorni dalla burocrazia. Questo spinse gli altri pescatori a gettare in mare i corpi trovati, per non rischiare di non lavorare per molti giorni. Il pescatore Salvatore Lupo trovò la Carta d'Identità di un ragazzo dentro la tasca di un paio di jeans, e rimase colpito per la giovane età, la stessa di sua figlia.
Il naufragio sarà ignorato da autorità e stampa (pochissimi giornali trattarono l'argomento, fra questi, "Il Manifesto"), finché non riapparve la nave Iohan, che nel frattempo aveva cambiato nome in "Leopard", continuando a fare viaggi della speranza.
Iniziano le indagini da parte del giornalista Bellu e dei parenti delle vittime. Questi ultimi ricostruirono la piramide dell'organizzazione criminale e prepararono un Dossier, che presentarono alle autorità greche e alla Procura di Reggio Calabria. Nonostante ciò, nulla accadde.
La vicenda riapparve all'attenzione dopo l'8 maggio del 2001, giorno in cui Salvatore Lupo lesse un articolo sugli indagati del naufragio, in cui si diceva che il capitano della Iohan, Youssef El Hallal, era stato prosciolto per insufficienza di prove. Lupo si ricordò della Carta d'Identità trovata e si rivolse ad un suo amico giornalista, che portò la vicenda all'attenzione pubblica. Il giornale "La Repubblica" decise di mandare Bellu, che contatterà la comunità Tamil, a cui apparteneva il ragazzo di cui era stata trovata la Carta d'Identità, che si chiamava Ampalagan Ganeshu.
Bellu ricostruisce l'intera vicenda, e scrive un articolo dal titolo "Negli abissi il cimitero dei clandestini", pubblicato il 6 giugno 2001. In seguito saranno pubblicati altri articoli, e ci saranno interrogazioni parlamentari e richieste di Commissioni d'Inchiesta.
Lupo, che aveva avuto un ruolo importante nel far emergere la tragedia (dato che la testimonianza dei cittadini del Terzo Mondo non viene presa in considerazione), subì durissime persecuzioni, che lo costringeranno a perdere il lavoro. Persino il parroco locale, don Calogero Palaccino, dal pulpito lo accusò ingiustamente di aver incassato molto denaro (300/500 milioni di vecchie lire) da "Repubblica" per la sua collaborazione. Si trattava di evidenti menzogne, atte ad infamare Lupo, e ad isolarlo, mostrando a tutti di non poter impunemente far emergere aspetti del sistema agghiaccianti, le cui autorità preposte hanno il compito di tenere nascosti. A tutte le persone che fanno emergere i crimini del sistema è riservato lo stesso trattamento. Ad esempio, a coloro che denunciano reati di mafia, operazioni di terrorismo statunitense, ecc. Queste persone diventano oggetto di persecuzioni mediatiche e da parte delle autorità, come nel caso di Lupo.
La tratta degli umani fa parte del sistema, e ciò spiega perché le autorità occidentali ignorano le vittime della tratta, e non sollevano indagini nemmeno quando emergono fatti atroci, come nel caso della F-174.
Vengono aperte indagini, soltanto in casi rari, quando le vicende arrivano alla stampa, e dunque cadono sotto l'attenzione dell'opinione pubblica.
Nel caso del naufragio della F-174, si conoscono per certo i nomi dei maggiori responsabili, eppure nessuno di essi ha avuto una pena corrispondente al reato. Il comandante Eftychios Zervoudakis ha scontato in Grecia una pena di 7 anni di carcere, e oggi è libero. La Corte d’Assise di Siracusa ha assolto l'armatore Ahmed Sheik Turab, dall'accusa di omicidio volontario plurimo, "per non aver commesso il fatto". Il pubblico ministero aveva richiesto l'ergastolo.
Anche Mandir detto "Pablo", mercante di esseri umani, è stato assolto.
I parenti delle vittime, dopo aver vissuto una lunga odissea fra tribunali greci, italiani e maltesi, hanno dovuto capire che il valore dato alla vita dei loro congiunti non è lo stesso valore dato ai cittadini occidentali, e che le Costituzioni che dovrebbero garantire i diritti umani sono soltanto pezzi di carta.
Sugli immigrati i media ci danno notizie vaghe o distorte, in modo tale che il fenomeno non venga realmente compreso nelle sue caratteristiche. Non permettono alle persone comuni di capire bene cosa accade nei paesi degli emigranti che tentano di giungere in Europa.
A Tenerife, luogo in cui quasi ogni giorno sbarcano (o annegano) immigrati, le autorità spagnole vietano ai giornalisti di intervistare gli immigrati. Perché questo divieto? Cosa temono? Se non ci fosse nulla da nascondere questo divieto non avrebbe senso, ma le autorità occidentali hanno molto da nascondere. Esse temono che gli immigrati possano raccontare la vera situazione in cui versa il loro paese. Molti di loro sono dissidenti, e conoscono bene il potere delle corporation e delle banche occidentali nel consolidare dittature e nell'istigare (e organizzare) guerre. Se gli immigrati dissidenti potessero parlare liberamente attraverso i mass media, con le loro testimonianze permetterebbero a molti europei di capire le mistificazioni dei media ufficiali e di avvicinarsi alla comprensione della vera situazione del pianeta.
L'attuale gruppo dominante vuole creare, non un mondo a più culture, ma un mondo in cui c'è un'area che gli garantisce il consenso (anche grazie alle manipolazioni dell'opinione pubblica) e un'area assai più vasta in cui le persone vivono disperate, private della dignità e della possibilità di crescere materialmente e culturalmente. Ciò avviene affinché il gruppo egemone possa rimanere al potere. Infatti, quest'ultimo, essendo costituito soltanto da un numero esiguo di persone, se non costringesse al degrado e alla disperazione la maggior parte dell'umanità, prima o poi verrebbe distrutto. Creare miseria, sofferenza, guerre e divisioni è la "condicio sine qua non" del loro potere.
Per nascondere la situazione criminale in cui si vengono a trovare molte persone del Terzo Mondo, i media occidentali creano confusione fra criminalità e immigrazione, facendo intendere che i "clandestini" rappresentino un pericolo per i cittadini occidentali, e che gli immigrati sono criminali, nascondendo accuratamente le organizzazioni criminali, protette dal sistema, che organizzano la tratta degli umani e molte altre attività criminali.
Le persone del Terzo Mondo si trovano a vivere situazioni di conflitto create "ad oc" sfruttando le differenze di religione e di etnia.
Gli stegocrati (6) sono esperti nei metodi atti a creare guerre civile e guerriglie di vario genere. Ad esempio, nella Clinica Psichiatrica Tavistok di Londra venivano messe a punto tecniche per manipolare le menti e creare conflitti. Gli esperti del Tavistock si specializzarono nell'abilità di creare falsi movimenti di "liberazione". Era il periodo in cui nascevano in Asia e in Africa diversi movimenti anticoloniali, e l'impero britannico elaborò un modo efficace per renderli deboli: creare falsi movimenti rivali e scatenare una guerra "civile". I gruppi rivali creati dalla Corona britannica erano i più feroci e disposti ad agire in modo terroristico, uccidendo civili inermi. Il generale Rees si occupò, nel periodo 1949-50, di un programma chiamato "Tensione mondiale: la psicopatologia delle relazioni internazionali". Lo scopo era quello di capire le caratteristiche culturali ed etniche dei gruppi anticoloniali, “per poterli meglio controllare”. Il controllo esigeva anche tecniche di creazione di tensioni sociali o contrasti fra i gruppi, utilizzando metodi violenti o ingannevoli. Durante gli anni Cinquanta, il generale di brigata John Rawlings Rees, direttore dell'Istituto Tavistock, e i suoi collaboratori, fecero diversi viaggi in Asia e in Africa, per creare un'équipe di psichiatri che seguissero di vicino le organizzazioni false e vere di "liberazione".
In tal modo venivano assoldate bande criminali o formati gruppi di combattimento per seminare odio e distruzione e spingere i gruppi etnici gli uni contro gli altri. Queste stesse tecniche sono state utilizzate in Iraq, in Afghanistan, in Somalia, in Sudan e in molti altri paesi del mondo. Molte persone che vivono nei luoghi in cui vengono scatenate guerre o imposte dittature, vengono condizionate a credere di poter risolvere i problemi di sopravvivenza o salvare la propria vita espatriando. In tal modo viene evitato il rischio che esse si organizzino per lottare contro i regimi fantoccio imposti dalle autorità occidentali.
Gli emigranti vengono messi nelle condizioni di non poter utilizzare i mezzi di trasporto regolari, e di dover spendere cifre molto alte per viaggiare su mezzi fatiscenti e altamente rischiosi. Viene creata all'origine la situazione di "clandestino" poiché gli emigranti vengono privati dei documenti e di quasi tutto il denaro che hanno. Nei paesi europei, saranno duramente discriminati, poiché le leggi non riconoscono diritti ai migranti senza documenti e senza denaro.
I migranti, messi nelle mani dei falchi che si occupano dei mezzi di trasporto che li porteranno in Europa, saranno trattati peggio che se fossero animali, e la loro vita si troverà in grave pericolo.
A noi europei verrà detto che si può trattare di potenziali "terroristi", dato che si tratta di persone senza documenti, e tramite l'uso massiccio dei media, saranno creati odi, contrasti e discriminazione, per impedire la vera comprensione della realtà e la solidarietà fra i popoli, che metterebbe in pericolo il potere dell'oligarchia.
Gli emigranti, specie quelli dei paesi più perseguitati dall'attuale gruppo di potere, arabi, nigeriani, cingalesi, somali, ecc., saranno soggetti alla gogna mediatica, che li farà apparire come potenziali criminali o come i responsabili dell'attuale situazione di precariato lavorativo o di altri problemi. Criminalizzarli significa anche proteggere l'immagine delle autorità europee come baluardo dei diritti umani.
Così gli europei continueranno a credere che le loro autorità difendono ovunque i diritti umani, e non hanno nulla da spartire con i dittatori, con le guerre del Terzo Mondo, o con la disperazione di chi rischia la vita per espatriare.
In Italia "l'emergenza immigrati" si affermò dopo il 1991, anno in cui furono rimpatriati alcune centinaia di albanesi; nel 1995 una brigata dell'esercito presidiò le coste pugliesi e due anni dopo venne inviato qualche migliaio di militari per poter presidiare l'Albania e impedire nuove partenze. Da allora la stampa iniziò a diffondere notizie allarmanti ed esasperate sul fenomeno degli immigrati, provocando un senso di paura e di insicurezza fra i cittadini italiani. L'allarme e la conseguente paura hanno prodotto un senso di repulsione e alimentato la xenofobia.
Il senso di panico e di emergenza dette origine al decreto Dini del 1995 e alla legge Turco-Napolitano del 1998. Il decreto Dini introdusse il principio della chiusura delle frontiere e delle espulsioni come "soluzione del problema immigrati" mentre la legge Turco-Napolitano, non discostandosi da questi principi, aggiunge l'istituzione di veri e propri campi di prigionia dove vengono rinchiusi gli immigrati da espellere. Nello stesso anno dell'introduzione della legge furono aperti i campi in Puglia, in Sicilia e in altre località. In questi luoghi, persone che non hanno commesso alcun reato vengono imprigionate e costrette a vivere sotto stretta sorveglianza della polizia e in un ambiente in cui la violenza e le vessazioni sono la norma.
La legge Turco-Napolitano, se da un lato affermava che anche gli stranieri godono degli stessi diritti dei cittadini, dall'altro aggiungendo "salvo che le convenzioni internazionali in vigore per l'Italia e la presente legge dispongano diversamente" legittimava le discriminazioni nei diritti civili, che si traducono nelle espulsioni e nelle detenzioni.
La legge Bossi-Fini, che nel 2002 sostituirà la legge Turco-Napolitano, è una legge palesemente razzista in cui gli immigrati vengono considerati "merce da lavoro" oppure delinquenti che la polizia deve imprigionare e poi espellere. Le quote annuali sono ulteriormente ristrette favorendo la clandestinità. La legge favorisce il lavoro precario e stagionale con auspicio che dopo alcuni mesi gli immigrati preparino la valigia per andarsene. La Bossi-Fini è stata dichiarata anticostituzionale negli articoli 13 (espulsione amministrativa) e 14 (ulteriori disposizioni per l'esecuzione dell'espulsione).
Queste leggi sull'immigrazione non parlano di diritto di asilo, non riconoscono il diritto di voto agli immigrati (neppure amministrativo, come era stato proposto nella legge Turco-napolitano), e rendono difficili anche i ricongiungimenti familiari.
Il Decreto Legislativo del 25 luglio 1998, n. 286 (Testo Unico di Pubblica Sicurezza) individua negli apolidi e nei cittadini non appartenenti all'unione europea l'ambito soggetto alle discriminazioni. Questo decreto legislativo individua ed indica le caratteristiche che mettono fuori legge un soggetto presente o aspirante ad entrare nel territorio nazionale. I soggetti, per entrare nel territorio devono avere i documenti in regola, provare di non essere poveri e di avere un motivo compatibile con la legge, cioè un motivo che non sia quello che i poveri hanno per valicare i confini. Nell'art. 3 si parla di quote massime, cioè lo Stato può escludere l'immigrato perché non ne ha bisogno lavorativamente. Lo straniero per entrare non deve essere povero, non deve aver bisogno di espatriare, se si scopre che ne ha bisogno diventa un fuorilegge, un clandestino. Egli può ottenere il visto d'ingresso se possiede un documento e dimostra di non essere povero. L'art. 4 comma 3 pone il reddito come una condizione legale: "L'Italia (...) consentirà l'ingresso nel proprio territorio allo straniero che dimostri di essere in possesso di mezzi di sussistenza sufficienti per la durata del soggiorno (...) Non potrà essere ammesso in Italia lo straniero che non soddisfi tali requisiti".

Il reato è la povertà stessa in quanto lo Stato decide di non accogliere persone povere o in stato di bisogno. L'avere un reddito rappresenta una condizione necessaria proprio come il passaporto o il visto. Se si è poveri si viene respinti o espulsi, quindi anche colui che richiede asilo diventa un fuorilegge sia perché di solito è sprovvisto di documenti, sia perché spesso è in uno stato di indigenza per le medesime cause che lo inducono a fuggire. In altre parole i requisiti richiesti dalla legge permettono la libera circolazione soltanto delle persone che vivono nelle zone non povere.
Mentre le autorità occidentali, in primis quelle anglo-americane, fomentavano guerre e terrorismo in Asia e in Africa, in Europa i media alimentavano gravi pregiudizi contro gli immigrati, vittime senza alcuna possibilità di difesa.
Nel giugno del 2002 a Siviglia si è svolto un vertice europeo, in cui tutte le potenze erano concordi ad aumentare il controllo su tutte le persone, in particolare sugli immigrati, che diverrebbero oggetto di vera e propria attenzione poliziesca, col pretesto di combattere il terrorismo.
Amnesty International, in occasione del vertice di Siviglia, ha presentato un manifesto che denuncia l'atteggiamento sbagliato delle nazioni europee verso l'immigrazione. Il manifesto, sottoscritto da Eduardo Galeano, Luis Sepúlveda e Caballero Bonald, dice:

"Negli ultimi tempi si sta diffondendo in tutta Europa un discorso impregnato di paura. Alcuni cittadini temono che ciò che percepiscono come un'"invasione" di immigrati o un abuso al sistema di asilo vada a toccare la loro situazione economica, sociale o di sicurezza. Altri temono il rafforzamento di posizioni politiche populiste o di estrema destra... I maltrattamenti e le torture contro gli immigrati sono aumentati negli ultimi anni, una tendenza che è attestata anche nel resto d'Europa, come denuncia il Centro europeo di osservazione sul razzismo e la xenofobia... Chiediamo ai capi di Stato e di Governo degli Stati membri dell'Unione Europea riuniti il 21 e 22 giugno a Siviglia che si impegnino a:
1. Riaffermare il rispetto delle norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati adottando misure che garantiscano alle persone che fuggono dalle violazioni dei diritti umani di poter chiedere asilo in Europa e ottenere protezione.
2. Valutare le conseguenze, a livello di diritti umani, di tutte le decisioni miranti a combattere l'immigrazione irregolare.
3. Mettere a punto una strategia europea e nazionale per combattere tutte le forme di razzismo e discriminazione.
Consideriamo che nella lotta contro l'immigrazione irregolare non si possono sacrificare i diritti umani degli immigrati e dei rifugiati".(7)

Molte persone ignorano che la lotta al terrorismo in molti casi è un pretesto per privare le persone straniere dei loro diritti. I media occidentali creano un impeto razzistico per farci dimenticare che tutti gli esseri umani hanno diritti inviolabili, e che gli immigrati non sono da punire né da temere. Il sistema attuale fa leva sulle nostre paure più profonde: la paura di ciò che è a noi estraneo o di ciò che disconosciamo. Le nostre autorità creano il mito della sicurezza e della legalità per avere un motivo valido e da tutti accettato per perseguitare e controllare fino all'ossessione gli immigrati. Alcuni di essi raccontano di essere fermati per controlli dalla polizia anche venti volte alla settimana. Occorre capire qual'è il vero significato di tutto ciò. Non è il volerci proteggere perché proprio le autorità europee (oltre a quelle statunitensi) proteggono i traffici illegali praticati da criminali e mafiosi. Il controllo non è diretto agli stranieri che praticano crimini, tanto è vero che questi ultimi possono, nella maggior parte dei casi, liberamente spacciare droga, organizzare la prostituzione e attuare altri crimini. Le reti criminali di vario genere sono utilizzate dal gruppo stegocratico per seminare insicurezza, e dunque paura. Per capire veramente il fenomeno dell'immigrazione occorre non soltanto analizzare la situazione politico/economica da cui gli immigrati provengono, ma anche comprendere i meccanismi di dominio del gruppo egemone sui popoli.

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PER APPROFONDIRE

Alietti Alberto, "Sociologia del razzismo", Carocci, Roma 2000.
Allport Gordon, "La natura del pregiudizio", La Nuova Italia, Firenze, 1973.
Basso Pietro, "Razze schiave e razze signore. Critica dei fondamenti sociali del razzismo". Vol. 1, "Vecchi e nuovi razzismi", Franco Angeli, Milano 2002.
Bellu Giovanni Maria, "Il fantasma di Portopalo", Mondadori, Milano 2004.
Dal Lago Alessandro, "Non persone. L'esclusione dei migranti in una società globale", Feltrinelli, Milano 2004.
Filippa Marcella, "Dis-crimini", Società Editrice Internazionale, Torino 1998
Sossi Federica, "Autobiografie negate", Manifestolibri, Roma 2002.


NOTE

1) Arlacchi Pino, "Schiavi. Il nuovo traffico di esseri umani", Rizzoli, Milano 1999.
2) Pilger John, "Agende nascoste", Fandango libri, Roma 2003, p. 61.
3) "Il Manifesto", 17 dicembre 2006.
4) "Il Manifesto", 17 dicembre 2006.
5) Lucarelli Carlo, "Blu notte", 30 settembre 2007.
6) Vedi articolo http://antonellarandazzo.blogspot.com/2008/03/lipotesi-stegocratica-parte-prima-il.html
7) "Una strategia contro razzismo e discriminazione. Appello di Galeano, Sepulveda e Bonald al vertice di Siviglia", "Adista Notizie", n. 51 del 1° luglio 2002.